Questa rubrica intende essere una finestra sul panorama calcistico mondiale. Partendo non necessariamente dalla cronaca, mira a offrire spunti di riflessione rispettosi delle diverse identità di questo sport nei tanti luoghi ove è praticato, con un occhio parimenti attento alle realtà di cui meno si parla.
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Argentina sottosopra
La recente, storica prima retrocessione del River Plate ha avuto grande eco in tutto il mondo. Ma come tutti i principali avvenimenti di questi tempi corre il rischio di essere già passata nel dimenticatoio, almeno fuori dall’Argentina. Rischia di aver rappresentato niente più che una statistica trasformata, per esotica comodità, nella notizia da prima pagina o nel titolo d’apertura di un notiziario sportivo che, più che altro, prova a fare tendenza.
Centodieci anni di storia veramente gloriosa non hanno evitato al River la stessa sorte di tante altre più o meno nobili decadute degli ultimi anni. Solo nell’ultima stagione sono retrocessi West Ham United, Eintracht Francoforte, Monaco e Lens, Sampdoria e Deportivo La Coruña, e a un passato recente appartengono anche le discese nella serie cadetta di Vasco da Gama e Corinthians, oltre che l’ennesima del Torino.
A Buenos Aires la tragedia ha assunto risvolti ancora peggiori in considerazione del fatto che dopo il doppio, scellerato mandato di Aguilar il dramma si è consumato durante la presidenza dell’unico uomo che può vantarsi di essere stato giocatore, capitano, allenatore e appunto presidente del Club: quel Passarella che, idolo per alcuni, da altri è accusato addirittura di avere avuto simpatie per il Boca. Tutto questo mentre alcuni pezzi pregiati – gli ultimi sono Lamela, Buonanotte e Lanzini - prendono ancora, fatalmente, la via della ricca Europa o di un Brasile in netta ripresa, obbligando la squadra a riciclarsi per l’ennesima volta. Insomma, gli indizi che lo psicodramma possa continuare ci sono tutti, ma esistono anche elementi che in attesa dell’esito della stagione a venire fanno sì che i prossimi mesi possano essere vissuti con passione. Nuova, ma sempre tanta.
Al campionato cosiddetto B Nacional sono iscritte 20 squadre rappresentative dell’intero Paese, da nord a sud e dall’Atlantico alle Ande, esattamente come in Prima Divisione. Di queste, sempre analogamente a quanto succede nella massima serie, una decina sono di Buenos Aires e dintorni e il resto rappresenta città come Cordoba, Mendoza, La Plata e Rosario; in più, però, zone rurali ovvero isolate come Tucuman, San Juan, Jujuy, Paranà e Corrientes, fino alla Provincia di Chubut, in Patagonia, ove gioca il Guillermo Brown di Puetro Madryn.
Ad accrescere il fascino dell’edizione 2011-12, fra i suoi protagonisti si contano i detentori di un terzo dei titoli maggiori argentini: la bellezza di 42 sui complessivi 119. Sbaglia chi ritiene che il merito di questo spetti esclusivamente al River, che di campionati nazionali ne ha vinti nettamente più di tutti, 33. Anche Chacarita, Ferro Carril Oeste, Huracan, Rosario Central e Quilmes sono stati infatti campioni, nel complesso ben 9 volte – senza calcolare il Gimnasia y Esgrima La Plata che si affermò nell’era amatoriale. Ed è curioso come tutti questi Club, River incluso, abbiano dominato gli anni Settanta e Ottanta, gli ultimi autentici prima che i quattrini iniziassero a fare la differenza: dei 34 titoli assegnati in quel ventennio, infatti, esattamente la metà e cioè 17 se li sono divisi loro, con la sola eccezione del Chacarita che il suo trionfo lo ottenne comunque a ridosso di quell’epoca, nel 1969. E’ stata un’epoca, quella, che in tanti ricordano come dorata, con Club fantasticamente organizzati spesso in polisportiva che sembravano poter fare da apripista a un movimento maturo che invece non arrivò mai. Oltre che del River, si trattava proprio di Ferro e Huracan. Ecco allora che tenendo i riflettori puntati sulla futura B Nacional avremmo l’occasione di riscoprire - per non perdere più - un calcio che lì come anche da noi, col suo misto di eterogeneità, amarcord e nobile lignaggio, merita di più. Perché è stato e continua a essere più di quel che ci vogliono far credere, ma come tale dev’essere riconosciuto perché non ci si fermi alle citate, effimere prime pagine da informazione omologata, pavida e globalizzata solo all’occorrenza.
Anche in Europa, e di conseguenza in Italia, inaspettate ma diffuse crisi societarie piuttosto che annosi sviluppi giudiziari hanno contribuito a ridisegnare il panorama professionistico. Contemporaneamente, alcuni cosiddetti miracoli tecnici hanno riportato in auge Società che dal secondo Dopoguerra in poi erano cadute nel dimenticatoio dei più. Tutto questo dimostra che i valori in campo sono altri rispetto a quelli generalmente propinati e che il calcio – dirò di più, la cultura – di un Paese può e quindi dovrebbe essere interpretato da tutti – compreso chi è legato alle squadre oggi privilegiate – prescindendo dalle categorie, attraverso realtà diverse. Solo passando da queste ultime possiamo avere un quadro attendibile delle cose, considerando anche ciò che spesso non ha nulla a che fare coi successi anche se, va da sé, si gioca per vincere.
Dicendo questo mi torna però alla mente quanto appena fatto da due giocatori contro tendenza, del River, entrambi nel pieno della carriera e forti di contratti europei da milioni di euro. L’idolo ‘millonario’ Fernando Cavenaghi ma anche il ‘Chori’ Dominguez, che pure con quella maglia aveva giocato poco, hanno deciso di lasciare i rispettivi Club (Bordeaux il primo e Valencia il secondo) e rischiare tutto per aiutare la loro squadra del cuore a tornare immediatamente in Prima Divisione. E’ da vicende come questa che si dovrebbe ripartire, incoraggiati dal fatto che fra chi è meno in luce gesti analoghi sono più comuni di quanto lo siano febbrili cambi di casacca e valzer di trasferimenti milionari fra le nuove potenze del calcio mondiale, capaci di offrire tentazioni irrinunciabili a un’altra categoria di persone che, conti alla mano, pur non sembrandolo è decisamente la minoranza. Grazie a dio.
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