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di Andrea Baricco
Dopo la perdita di una squadra nelle Coppe Europee, il calcio italiano deve necessariamente trovare un sistema per riportare la propria competitività ai livelli che gli spettano.
Nonostante i numeri abbiano reso evidente tale problematica solo nelle ultime settimane, la qualità dei singoli calciatori e l’oggettivo spessore delle squadre del Belpaese già da tempo mostrano evidenti crolli verticali.
Non è sufficiente l’exploit stagionale di una singola compagine, come accaduto negli ultimi tempi a Milan e Inter, è necessario che il movimento intero compia notevoli passi avanti per permettere a chi rappresenta la nazione di potersi esprimere al meglio.
Nelle ultime settimane, si è molto parlato del “Clasico”, match-clou del calcio iberico tra Real Madrid e Barcellona, che, per una serie di circostanze, si stanno rendendo protagonisti di quattro sfide – due delle quali già giocate, di cui una con il clamoroso ritorno alla vittoria del Real dopo sei anni - in diciotto giorni. La rilevanza mediatica di tali eventi, testimoniata dall’interesse proveniente da ogni parte del globo e dall’utilizzo di sofisticate tecnologie per rendere visibile la partita anche in 3D, induce ad una profonda riflessione sulle differenze che esistono tra il calcio europeo di elite e un calcio che talvolta può essere definito 'provinciale' sia per la qualità di gioco sia per lo scarso interesse verso competizioni europee di secondo livello. Il discorso non è circoscritto alla Spagna, ma vale anche oltremanica, dove Chelsea, Arsenal, Manchester United e City, Tottenham e ad anni alterni Liverpool, catalizzano l’attenzione mondiale e offrono spettacolo sia in campo che fuori.
In Italia, se si esclude il caso di Giampaolo Pozzo, che incarna un’eccellenza in tale senso, il calcio non rappresenta un business da cui trarre un profitto. Ci si affida a persone più o meno facoltose, ma non certo magnati, che, in alcuni e spesso sporadici casi, ripianano i conti perennemente in rosso con i propri beni personali, diversamente da quanto accade già da anni in Inghilterra, dove nel medio periodo più della metà dei clubs partecipanti alla Premier avranno come padrone un multimilionario russo, americano, indiano, saudita e, in futuro, chissà, anche cinese.
Lo sbarco di DiBenedetto nel calcio nostrano rappresenta una novità assoluta. Esportare il marchio Roma e renderlo importante e riconoscibile rappresenta un’ardua sfida, per la riuscita della quale saranno necessari competenza e professionalità superiori agli standard attuali.
Inoltre, non è da dimenticare che un differente sistema fiscale, come quello spagnolo, agevola molte trattative, in quanto l’obiettivo finale può essere raggiunto con una spesa significativamente inferiore.
Un altro punto da tenere in considerazione riguarda il valore oggettivo e specifico dei protagonisti in campo. Troppo spesso ormai l’Italia non rappresenta la meta preferita dei calciatori, il coronamento di una carriera. In alcuni casi la si considera una mera esperienza, perchè, pur essendo sempre bello e importante vincere in condizioni nuove e diverse,“la chiamata alla quale non si può dire di no” difficilmente arriva dallo Stivale.
Il background manca di appeal, gli stadi sono vuoti e talvolta vere e proprie 'cattedrali nel deserto', il pre e il post partita del pubblico non esistono, le famiglie si tengono a debita distanza e il colore è pressochè scomparso. Le nuove disposizioni di sicurezza hanno contribuito ad un progressivo disamoramento del tifoso, sia egli occasionale frequentatore o abbonato. Inoltre, se da un lato la possibilità di seguire la propria squadra in televisione annulla distanze territoriali difficilmente colmabili diversamente, dall’altro non esistono punti di incontro sparsi capillarmente nel Paese, con la conseguente visione esclusivamente privata, nelle proprie abitazioni.
Inoltre, il valore del calcio italiano percepito all’estero è decisamente basso. Basti persare che le pay-tv inglesi non dedicano spazio alle partite del nostro campionato, mentre da noi esiste la possibilità di assistere agli incontri di Spagna, Inghilterra, Germania, Francia, Russia, USA, Argentina e Brasile.
Infine gli stadi. E’ stato ripetuto all’infinito, ma è realtà tangibile che tanti di essi siano vecchi, brutti, poco comodi e fruibili, in zone talvolta periferiche o inserite in un contesto estraneo al mondo del calcio.
In qualche modo è necessario invertire la rotta, investendo non solo in ingaggi e compravendita di giocatori, ma anche ponendosi l’obiettivo di rendere appetibile e interessante il prodotto che si sta offrendo, sia all’interno che all’esterno dei confini nazionali.
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