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di Stefano Rosso
Osservando le diverse discipline sportive nei vari paesi del mondo si possono notare modelli economici ed organizzativi profondamente diversi tra loro, che riscuotono più o meno interesse nei confronti del pubblico. In tal senso, soprattutto per il successo, il modello americano può essere citato ad esempio: quattro discipline profondamente diverse tra loro –hockey, football, baseball e basket – regolate da quattro leghe differenti che funzionano allo stesso modo e registrano continuamente record di affluenze di pubblico e di ascolti televisivi. La domanda che sorge spontanea, sebbene la popolazione americana sia superiore a quota 300milioni, può interrogarsi su come sia possibile tanto successo contemporaneo su discipline così differenti.
Per rispondere è necessario andare ad analizzare attentamente il modello sportivo americano, partendo da una piccola premessa che può rendere bene l’idea della differenza rispetto all’approccio europeo ed italiano in primis: l’intero numero dei club professionisti dei quattro sport negli Usa è minore rispetto al solo numero delle squadre di calcio professioniste, altre discipline escluse, presenti nel nostro paese (112 contro le oltre 130 società italiani suddivise tra serie A, B e Lega Pro).
Questo succede anzitutto perché sono differenti le regole alla base del sistema: in America i criteri di ammissione al campionato sono esclusivamente di carattere economico, in assenza delle cui garanzie non è permesso iscrivere la propria squadra alla Lega. A rendere ulteriormente elitario quei campionati ci pensa l’organizzazione delle competizioni: la composizione della massima divisione è a numero chiuso e, pur esistendo svariate leghe minori, non è previsto alcun meccanismo di promozione e retrocessione che possa permettere il ricambio dei club di massima serie. L’unica possibilità di variare la composizione di tale campionato è il trasferimento di franchigia: quando la redditività di una squadra in una determinata città non è più consona agli investimenti - per scarso interesse del pubblico, ad esempio – viene spostata da un’altra parte, dove manterrà tutto il suo organico eccetto nome e logo. Succede così, ad esempio, che nell’NBA i celeberrimi Los Angeles Lakers prima del 1960 fossero conosciuti col nome di Minneapolis Lakers e prima del ’47 addirittura come Detroit Gems.
Un’altra differenza sostanziale è quel concetto di equilibrio che nell’ultimo decennio ha permesso ad un elevato numero di squadre di contendersi il titolo. Per dirlo all’americana: draft e salary cap. Se il primo permette a tutte le compagini di avere accesso ai giocatori giovani (non esistono formazioni giovanili e vivai ma soltanto le squadre delle università) ed agli svincolati, incominciando a far scegliere alla squadra ultima classificata nella stagione precedente, il secondo – malamente scopiazzato dall’Uefa – permette un’equa distribuzione delle risorse tra tutte le squadre. Premesso che negli Stati Uniti tutti i ricavi delle singole franchigie confluiscono in un unico conto intestato alla Lega, la quale poi provvedere a dividere i guadagni in parti uguali tra tutte le squadre, il salary cap – ovvero l’ammontare massimo di denaro spendibile da una squadra in un anno per pagare gli stipendi dei propri giocatori – impedisce ai dirigenti un utilizzo eccessivo (e, nel caso italiano, superiore alle proprie possibilità) delle risorse economiche, stabilendo al contempo una luxury tax da corrispondere alle società più deboli in caso di sforamento del tetto massimo imposto.
In questo modo si garantisce sia l’autonomia e la sostenibilità economica delle varie squadre sia la loro competitività agonistica.
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