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Gino, Giulio e la Guerra

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di Walter Panero Oggi è la volta della riproposizione di un racconto già pubblicato nell'aprile del 2010. Si tratta di una storia di amicizia che si propone di far riflettere sull'assoluta assurdità della...
Redazione Toro News

di Walter Panero

 

Oggi è la volta della riproposizione di un racconto già pubblicato nell'aprile del 2010. Si tratta di una storia di amicizia che si propone di far riflettere sull'assoluta assurdità della guerra. Buona lettura a coloro che avranno voglia di dedicare un po' di tempo a qualcosa di diverso dal nostro povero Toro! 

 

Alta Val di Susa. 20 giugno 2009. Pomeriggio.

Un fuoristrada grigio con targa francese supera il ponte e si ferma nella piccola piazzola di fronte ad una chiesa. Una donna piuttosto robusta sulla sessantina ed un ragazzo dall'apparente età di trent'anni scendono dall'auto e si dirigono verso la portiera anteriore. Rivolgono qualche parola in Francese alla persona che è rimasta all'interno dell'abitacolo. L'uomo spinge le gambe al di fuori della vettura e, sostenendosi con entrambe le braccia alla donna ed al giovane, esce dall'auto e sta in piedi accanto ad essa. Indossa un abito grigio un po' antico, ma piuttosto elegante. E' un uomo molto anziano: potrebbe avere novant'anni, forse addirittura di più.Il vecchio cammina molto lentamente appoggiandosi al ragazzo ed alla donna. I tre si avviano verso  gli scalini che portano al sagrato della chiesa. Ad ognuno dei circa dieci gradini, il vecchio si ferma. Prende fiato. Si deterge il sudore. Ad un certo punto la donna lo invita a tornare indietro, ma lui la gela con uno sguardo di ghiaccio. Proseguono. Si avvicinano alla chiesa. Il vecchio la osserva con occhi soddisfatti. Ma non è quella la loro meta. Proseguono ancora sempre lentamente, ma adesso in maniera più spedita.Il ragazzo apre un cancello che sta vicino alla chiesa permettendo al vecchio di entrare. Quest'ultimo indica un punto preciso ed  i tre lo raggiungono sempre lentamente. Si fermano. La donna apre la borsa che tiene a tracolla e consegna al vecchio qualcosa. Il vecchio lo prende con mano tremolante. Da quando hanno lasciato l'automobile è trascorsa più di mezzora ma il sole è ancora alto e bacia in fronte la grande montagna.Il vecchio sorride soddisfatto. Ma dai suoi occhi azzurri scendono lacrime.

 

Alta Val di Susa. Molti anni prima.

Le poche case che formavano il piccolo paese sembravano guardare l'imponente montagna che, da lassù, le controllava come una madre controlla i propri cuccioli. Tra loro si ergeva, come un guardiano, l'altissimo campanile della chiesa. Una chiesa apparentemente troppo grande e troppo bella per quel paese così minuscolo. Un attento osservatore avrebbe potuto comprendere che una chiesa così grande era la testimonianza di un passato glorioso per quel piccolo paese. Infatti, anche se ora era difficile da credere, quel minuscolo villaggio era stato uno dei più importanti della vallata. L'ultimo baluardo prima della frontiera con la Francia. E proprio da questo suo essere posto alla fine della valle, il piccolo paese traeva il suo nome.

Gino era nato ed aveva sempre vissuto in quel minuscolo borgo. Da piccolo, quando veniva l'estate, si divertiva a scorrazzare libero per i prati con gli altri bambini. Gli piaceva correre dietro ai caprioli. Gli piaceva tirare al bersaglio con la fionda. Gli piaceva giocare col suo cane e con tutti gli animali della vecchia cascina dove abitavano i suoi genitori. D'inverno il paesaggio cambiava e tutto diventava bianco. Il più delle volte la temperatura era così rigida che nessuno si azzardava ad uscire di casa e tutti se ne stavano al caldo accanto alla stufa. Ma appena la temperatura saliva leggermente, i bambini si precipitavano fuori a giocare nella neve: creavano pupazzi dalle forme più strane, organizzavano grandi battaglie che duravano pomeriggi interi, si costruivano slitte di legno per lanciarsi a rotta di collo lungo i torrenti ghiacciati. Dopo aver finito le elementari, Gino era stato arruolato dai suoi genitori per aiutarli nei campi. All'inizio, tutto gli era sembrato un gioco ma poi si era accorto che gioco non era, ma lavoro duro. La mattina ci si svegliava al canto del gallo. Bisognava mungere. Poi si andava nei campi a fare il fieno o a prendere la legna a seconda delle stagioni. E la sera ancora mungere. Era una vita dura e le uniche distrazioni erano le chiaccherate la sera nella stalla quando le famiglie del borgo si trovavano per contarsela. Si parlava di campagna. Si  narravano storie antiche di fantasmi e di masche. I più svegli raccontavano di ragazze conosciute alle feste dei paesi vicini. Gino ascoltava e basta. Lui non aveva molte cose interessanti da dire. Almeno per il momento.

Quando Gino era piccolo, il suo amico più caro si chiamava Giulio. Erano coscritti e nessuno dei due ricordava con esattezza quando si fossero incontrati la prima volta. Accade così quando due persone si conoscono praticamente da sempre. Un giorno di primavera, Gino, che all'epoca aveva sette anni, aspettava Giulio per andare a giocare nei prati e poi a far merenda dalla nonna che di solito preparava loro pane burro e zucchero, o marmellata quando andava bene. Il suo amico era sempre puntuale per cui Gino si stupì quando non lo vide arrivare all'orario che avevano stabilito. Doveva essere successo qualcosa, immaginò il bimbo. Forse Giulio non è stato bene, pensò;  magari è meglio se gli vado incontro. Così, correndo, giunse a casa del suo amico e vide una cosa che non gli piaceva per niente. I suoi genitori stavano mettendo un mucchio di valige su un carretto, facendosi aiutare dallo stesso Giulio e dai suoi due fratelli più grandi. Gino guardò il suo amico e vide che dai suoi occhi scendevano grosse lacrime.

“Ma cosa sta succedendo? Cosa fate con tutta questa roba?” disse Gino.

“Non vedi?” rispose Giulio “ce ne stiamo andando da qui....papà dice di essere stufo di questa vita di stenti. Un nostro cugino che vive in Francia gli ha  trovato un lavoro. E lui ha deciso di prendere armi e bagagli e di trasferirsi laggiù....”

“Ma non è per sempre, vero?” chiese Gino.

“Mi sa di sì” rispose allora Giulio piangendo senza più ritegno.

“Tornerete qualche volta a trovarci qui al paese?” disse ancora Gino quasi disperato.

“Papà dice che d'estate, quando la scuola finisce, io potrò continuare a venire quassù a trovare i nonni e gli altri parenti. Quindi penso che ci vedremo di sicuro. Ma l'inverno è lungo e mi sa che mi dovrò dimenticare per un bel po' i giochi nella neve con te e tutti gli altri”.

Gino si sentì un po' sollevato dalle affermazioni dell'amico. Sentiva di non averlo perso. Sentiva che avrebbero potuto vedersi ancora. I due ragazzi si abbracciarono forte e solo l'intervento del padre di Giulio riuscì a separarli. Era l'autunno del 1925.

 

Francia

 

Marsiglia aveva un odore che a Giulio proprio non piaceva. Si spaventò la prima volta in cui gli capitò di vedere il mare. Gli mancavano i suoi monti imbiancati. Gli mancava la neve. Non sopportava il caldo che iniziava a picchiare forte già all'inizio di giugno, quando ancora lassù al paese ci si doveva coprire al venire della sera. Per fortuna, ogni anno, quando arrivava il mese di luglio, Giulio partiva con un'anziana zia e, dopo un lungo viaggio in treno, raggiungeva nuovamente il paesino di montagna dove poteva trascorrere qualche settimana con Gino ed i suoi vecchi amici.Fu così per moltissime estati. Gino continuava a lavorare nei campi, mentre Giulio, grazie al duro lavoro di suo padre al porto, aveva potuto studiare fino a quattordici anni, il che gli aveva consentito di trovare un lavoro sicuro e ben pagato. Quando si incontravano su in montagna, Giulio raccontava all'amico di come fosse la vita nella grande città. Delle tante ragazze che ci abitavano. Di quanto fosse bello il mare che Gino, fino a quel momento, non aveva mai visto se non con la sua fantasia. Spesso Giulio cercava di convincerlo a lasciare tutto ed a seguirlo nella grande città. Gino, soprattutto al termine di certe giornate di lavoro durissimo nei campi, ci pensava seriamente. Ma poi  gli era sufficiente guardarsi attorno: nel mondo non avrebbe potuto esserci di meglio di un cielo come quello, del verde della pineta, delle montagne che circondavano la sua valle.In città, a Torino, ci era stato qualche volta, e proprio non gli era piaciuta. Non sopportava tutta quella gente sempre di corsa, anche perché non capiva verso dove e verso che cosa corresse. Non gli piaceva l'odore della città: molto meglio il profumo della resina e dei fiori di quella puzza di fumo e carbone che gli faceva rimpiangere addirittura l'odore della sua stalla.Della città, Gino serbava un solo bel ricordo: una volta era sceso a Torino col suo amico Giulio ed avevano visto delle persone che camminavano felici con al collo alcune sciarpe di lana granata. Le avevano seguite ed avevano scoperto che in città c'era una partita molto importante di uno sport che, gli spiegò Giulio, in Francia faceva impazzire la gente. La squadra della città affrontava una  formazione svizzera in una partita valida per la Coppa dell'Europa Centrale e vinse per 7 a 1. Gino si innamorò subito di quella squadra dalla maglia rosso scuro come il vino: cominciò a imparare i nomi di giocatori come Bo e Janni, Buscaglia e Prato. Quando tornò al paese, si fece preparare da sua nonna una bella sciarpa di lana granata. E la indossava quasi sempre quando veniva l'inverno.La domenica si informava alla radio dell'osteria del paese sui risultati della propria squadra. Provava una grande gioia soprattutto le rare volte in cui essa sconfiggeva squadroni come la Juventus di Borel e Gabetto, il Bologna di Schiavio, l'Ambrosiana di Meazza e la Lazio di Piola. Provò una gioia immensa anche quando seppe che l'Italia si era laureata per la seconda volta consecutiva campione del mondo. Che grandissima soddisfazione, proprio perché il trionfo era avvenuto tra i nemici Francesi che, probabilmente invidiosi della superiorità della nostra squadra e prevenuti verso il nostro paese, non avevano fatto altro che fischiare i nostri ragazzi. Quei Francesi Gino proprio non li capiva, eppure avrebbero dovuto essere nostri amici. Anche Giulio era ormai diventato Francese e, malgrado tra loro avessero sempre parlato nel Patois della valle, si esprimeva ormai meglio in quella lingua che in Italiano.I due amici si incontrarono per l'ultima volta nell'estate del 1937. L'anno successivo, infatti, Giulio non si fece vedere al paese. Gino all'inizio si preoccupò per l'amico: non era sicuramente da lui scomparire in quel modo. Ma, col passare del tempo, se ne fece una ragione. Forse, pensò Gino, non era riuscito ad ottenere le ferie. Oppure aveva deciso di andare da qualche altra parte. Forse aveva conosciuto qualche ragazza e addirittura si era sposato. Magari aveva avuto dei figli.  Insomma, probabilmente aveva di meglio da fare e quindi non c'era assolutamente motivo di stare in ansia per lui. Già ce n'erano tanti di problemi: correva voce che una nuova guerra stava per abbattersi sull'Europa. Una guerra di cui Gino sapeva ben poco, se non che la colpa era dei soliti Inglesi con la loro mania di dominare il continente. Ma il nostro Duce, pensava il giovane, glie l'avrebbe fatta vedere a quei maledetti spocchiosi che volevano impedire all'Italia di farsi valere.

 

Guerra

 

La guerra arrivò in Europa un giorno di fine estate. Ma nel piccolo paese nessuno se ne accorse. Si continuava con la solita vita fatta di tanto lavoro e qualche piccola gioia. D'altra parte, la guerra si era fermata al di là delle montagne. Riguardava la Francia, non l'Italia. Anche se c'era qualcuno che diceva in giro che era solo questione di tempo e che prima o poi il conflitto sarebbe arrivato pure nel nostro Paese. Gino aveva sentito le cose che sulla guerra gli aveva raccontato suo padre che aveva combattuto in trincea sulle montagne del Veneto durante la Grande Guerra. E tutte le sere pregava che la guerra non arrivasse mai. Anche se il Duce continuava a dire che solo con essa l'Italia avrebbe finalmente ottenuto il posto che le spettava. Il giovane voleva continuare a lavorare nei campi. Voleva sposare la ragazza che aveva conosciuto l'anno prima alla festa del paese. Voleva avere dei figli da lei. Non sapeva cosa volesse dire combattere, ma non gli andava proprio di farlo.

Invece, un giorno di giugno, l'uomo con l'uniforme urlò dal balcone. Guerra sui mari, sulla terra e nei cieli. Guerra alla Gran Bretagna. Guerra alla Francia. Fino alla vittoria. Gino si ritrovò insieme a tanti ragazzi della sua età che venivano dalle campagne di tutta la regione. Ragazzi che, come lui, ignoravano il motivo per cui si trovavano lì. Diedero loro dei vestiti verdi tutti uguali. Un sergente dall'accento strano e diverso dal loro, insegnava a quei giovani come si teneva in mano un fucile. Come lo si caricava. Come si sparava. Diceva anche che avrebbe insegnato loro a marciare e questa cosa faceva morire Gino dalle risate, visto che se c'era una cosa, una sola, che sapeva fare era proprio camminare.

Ma c'era poco da ridere. Nel giro di pochi giorni Gino ed il suo plotone si ritrovarono in prima linea. La sorte era stata davvero beffarda con il giovane soldato. Con tanti posti che c'erano lungo il fronte, venne spedito a combattere proprio sulle montagne di casa sua. Proprio sul fortino che si trovava in cima alla grande montagna che dominava da lassù sia le valli italiane che quelle francesi. Se ne stavano lì, schiacciati nella piccola casermetta per ripararsi dal freddo che, a quelle quote, si faceva sentire anche nel mese di giugno. In certi momenti la guerra sembrava lontana perché da quelle parti, per il momento, non si vedeva neppure un nemico. Ogni tanto si sentiva qualche colpo di cannone in lontananza, giusto per ricordare a tutti che si era in guerra e che l'attacco nemico poteva arrivare in qualsiasi istante.Un pomeriggio di un giorno uguale agli altri, il tenente chiamò a rapporto Gino ed un suo commilitone che proveniva da un paese lì vicino. Colti di sorpresa e un po' preoccupati sistemarono al meglio le loro uniformi, per paura che l'ufficiale potesse infliggere loro qualche punizione. Chissà che cosa vuole quell'uomo da me, pensava Gino; io mi sono sempre comportato bene e non ho mai dato a nessuno qualche motivo per rimproverarmi. Forse mi deve affidare qualche missione particolare. O mi vuole  mandare in licenza premio. Forse.

Il tenente, che aveva soltanto qualche anno più di loro anche se, forse per sembrare più grande, si era fatto crescere un paio di lunghi baffi neri, li accolse con un bel sorriso. Gino si sentì un po' sollevato perché comprese di non aver nulla da temere.

“Ragazzi....ho chiamato proprio voi due perché so che siete di queste parti...” disse il tenente “e credo che siate i più idonei per risolvere un grosso problema che ci affligge da alcuni giorni....”

“Comandi, Signore!” risposero all'unisono i due giovani soldati.

“Anche se nessuno se n'è ancora accorto....” continuò l'ufficiale “Stiamo esaurendo quasi completamente le scorte di acqua. Ho cercato di chiedere aiuto ai presidi che si trovano più a valle, ma purtroppo le comunicazioni sono quasi completamente saltate a causa dei bombardamenti nemici. Se non facciamo nulla, rischieremo di morire tutti di sete in pochi giorni. La neve quassù si è quasi totalmente sciolta, ma sono certo che l'acqua si trova più in basso. Potremmo scendere tutti più a valle per fare rifornimento, ma gli ordini ci impongono di rimanere qui. Per questo chiedo a voi due di sacrificarvi per il bene di tutti. Si tratta di una missione pericolosa perché il nemico è vicino e può arrivare in qualsiasi momento. Ma so che voi conoscete bene la montagna e questi luoghi. Sono certo che riuscirete a non farvi prendere e che, prima del tramonto, sarete qui con una bella scorta per tutti...”

I due soldati si guardarono tra loro un po' impauriti. Il loro sguardo si spostò verso valle dove la nebbia stava inesorabilmente salendo. Non avevano altra possibilità se non quella di obbedire.Alcuni altri alpini li aiutarono a caricare sulla schiena due grossi zaini pieni di borracce. Il tenente diede loro una pacca sulle spalle che voleva essere di incoraggiamento per entrambi.Gino conosceva bene la strada da seguire. Quella era casa sua e quelli erano i suoi monti. Non sarebbe stata certo un po' di nebbia a fermarli e ad impedire loro di concludere con successo la  missione. Forse era incosciente, ma non aveva paura. I nemici, ovunque fossero, non conoscevano quelle montagne come le conosceva lui. Non sarebbero mai riusciti a sorprenderlo. I due alpini scesero fino ad un colle battuto dai venti. Gino guardò alla sua sinistra. Sapeva bene che lì c'era la Francia. C'erano i nemici. Alla sua destra invece c'era la sua valle. Ed era in quella direzione che doveva scendere. Era lì che si trovava la sorgente dove d'estate si abbeveravano le sue bestie. La nebbia era sempre fitta ma, man mano che scendevano, sembrava diradarsi leggermente. All'improvviso Gino udì un rumore. I due ragazzi si fermarono prendendo in mano i loro fucili. Niente. Probabilmente si erano sbagliati. O forse era stato soltanto un animale che scendeva anche lui alla sorgente per dissetarsi. Passarono alcuni minuti. Ancora un rumore. Stavolta inequivocabile. Gino era sicuro che si trattasse di una voce umana.“Stai qui” disse Gino al suo compagno “vado avanti io a vedere cosa succede....saranno sicuramente  i nostri soldati, visto che qui siamo sul versante italiano e non credo che ci siano dei nemici....”Gino fece alcuni passi. Le voci che aveva udito in precedenza ora tacevano.“Chi va là?” disse Gino.Silenzio.“Chi va là? Attenti o sparo!” gridò ancora il ragazzo ripetendo a memoria le frasi che gli avevano insegnato al corso di addestramento per le reclute.Ancora silenzio.Gino scosse la testa. Si voltò di spalle e si incamminò per raggiungere nuovamente l'altro soldato. Probabilmente, ammesso che ci fosse stato qualcuno, se n'era già andato.Fu a quel punto che Gino si rese conto che dietro di lui c'era  davvero qualcuno. Riuscì a scappare rapidamente ed a nascondersi dietro un grosso masso. Era certo di non essere stato visto. Gino si fermò tutto tremante ad osservare quell'uomo. Indossava un' uniforme leggermente diversa dalla sua e nella mano destra aveva un fucile. Gino non sapeva se si trattasse di un nemico o di un amico, ma nel dubbio preferì starsene lì nascosto. Lo avrebbe atteso e, se lui si fosse accorto di qualcosa, gli avrebbe sparato come gli avevano insegnato a fare.L'altro uomo si avvicinava lentamente. Era a quaranta. Trenta metri da lui. Fu in quel momento che Gino prese la decisione. Imbracciò l'arma. Puntò il fucile. Fece per sparare. L'uomo era a meno di venti metri da lui. Gino osservò sulla sua uniforme il simbolo dei nemici. Doveva sparare. Ora. Ora che riusciva persino a vederlo in faccia. Ora che....Gino si bloccò....guardò quegli occhi azzurri e rimase come paralizzato.Nell'aria si udì uno sparo sordo. E Gino sentì il sangue che gli colava dalla testa. Sentì le forze venirgli meno. Non gli rimase neppure il tempo per  pensare a quello che aveva appena visto.

“Monsieur...Monsieur....il était en train de vous tuer...”  (1) disse il giovane che aveva sparato “Ce maudit italien s'était mis derrière et il allait vous tuer....heureusement que je l'ai vu au moment où il allait tirer...je crois que je vous ai sauvé la vie, Monsieur” (2).Il giovane ufficiale francese rivolse un sorriso di gratitudine al soldato. Si avvicinò all'Italiano che si era accasciato a terra dietro la roccia. Si fece aiutare per girare il suo corpo. Fu in quel momento che riconobbe quella sciarpa. Fu in quel momento che riconobbe quegli occhi imploranti e spaventati. Fu in quel momento che iniziò a piangere come un bambino disperato.

 

Alta Val Susa. 20 giugno 2009. Verso sera.

L'uomo ha posato il mazzo di fiori rossi sulla lapide e ora la osserva con gli occhi rossi e pieni di lacrime. Tra poco tutto il paese si chiederà chi, oggi come ogni anno, ha lasciato quel ricordo sulla tomba del vecchio Gino, morto in guerra tanti anni fa. Se lo chiederanno in tanti visto che quell'uomo non aveva avuto il tempo di costruire una famiglia, portato via a vent'anni da una guerra incomprensibile.“Allez Jules....il faut qu'on fasse beaucoup de kilomètres pour arriver à la maison...on reviendrà l'année prochaine comme d'habitude...” (3) gli dice la donna che, pur essendo sua figlia, ha sempre avuto il vezzo di chiamarlo per nome.L'uomo subito sembra non sentire. Poi si scuote. Si fa il segno della croce. Si appende al braccio dei suoi accompagnatori. Lascia il vecchio cimitero che ormai conosce benissimo dato che ci viene ogni anno in questo periodo e visto che ci veniva sempre da piccolo ad accompagnare sua nonna.

Il fuoristrada grigio con targa francese lascia il piccolo paese. Vi tornerà forse il prossimo anno. Vi tornerà finché Giulio non troverà finalmente pace. Fino a che non potrà nuovamente abbracciare il suo vecchio amico. Lungo il tragitto che lo riporta a casa a Marsiglia, il vecchio si addormenta. Sogna. Si rivede quando da bambino giocava nei prati con Giulio e gli altri amici. La figlia lo osserva  e nota che sulle sue labbra affiora un sorriso. Il volto di suo padre le appare finalmente disteso, quasi feliceLo accarezza dolcemente. Non riesce a ricordare l'ultima volta in cui l'aveva visto sorridere così.

 

(1) Signore, Signore, stava per uccidervi!

(2) Questo maledetto Italiano si era messo là dietro e vi avrebbe ucciso....per fortuna l'ho visto nel momento in cui stava per sparare....credo di avervi salvato la vita, Signore

(3) Forza Giulio....dobbiamo fare tanti chilometri per arrivare a casa....torneremo l'anno prossimo come sempre....

 

Il 10 giugno del 1940 l'Italia dichiarò guerra alla Francia che stava per arrendersi sotto l'attacco dei Tedeschi da Nord Est. Fu un atto di viltà che il Presidente Americano Franklin Delano Roosevelt definì una “coltellata alle spalle”. Ma Mussolini aveva bisogno di “qualche migliaio di morti per sedersi da vincitore al tavolo delle trattative”. E li ottenne. Pazienza se si trattava di vittime innocenti come peraltro accade in ogni guerra.La cosa ancora più grottesca fu che al fronte si trovarono l'uno di fronte all'altro a combattere come nemici persone che, fino a qualche tempo prima, si incontravano a bere insieme in amicizia nei pressi del confine.Gino e Giulio sono personaggi frutto della mia fantasia, ma nulla ci permette di escludere che sul fronte italo-francese sia accaduto davvero che ci si sparasse tra amici di infanzia.

La foto che fa da corredo a questo racconto rappresenta la “Batteria del Monte Chaberton” così com'era alla vigilia dell'ultimo conflitto mondiale. Fu costruita nel periodo compreso tra le due Guerre per dar vita ad un avamposto italiano che dominasse Briancon e le sue valli. Venne fatta saltare per aria dai Francesi nei pochi giorni del conflitto.Ciò che resta della “batteria” è ancora visibile in cima al Monte Chaberton, oggi interamente in territorio Francese. Quest'ultimo può essere raggiunto a piedi con qualche ora di marcia sia da Clavière che da Fenils in Alta Valle Susa.Questa storia è nata da anni di frequentazione di quella valle e trae ispirazione anche da “La Guerra di Piero” di Fabrizio De André.Un ringraziamento particolare va infine a Giulia che mi ha aiutato con le frasi in lingua francese.