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Identità e mito

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di Andrea Ciprandi
Redazione Toro News

Questa rubrica intende essere una finestra sul panorama calcistico mondiale. Partendo non necessariamente dalla cronaca, mira a offrire spunti di riflessione rispettosi delle diverse identità di questo sport nei tanti luoghi ove è praticato, con un occhio parimenti attento alle realtà di cui meno si parla.

Sono ormai anni che si parla dell’eccezionalità del progetto-Barcellona. Così tante prestigiose vittorie ottenute per di più con l’apporto prioritario di giocatori usciti dalle giovanili non possono che colpire. Le reazioni, quelle, sono però diverse: c’è chi fa chapeau in presenza di tanta grazia e chi invece di queste imprese non vuol sentire nemmeno parlare – io credo, che lo si ammetta o meno, solo per invidia o ragioni legate al tifo e non invece per le ragioni tattiche dietro cui si nascondono molti detrattori.

Nella formazione di partenza decisa da Guardiola per la finale del Mondiale per Club vinta a dicembre contro il Santos erano addirittura nove gli ex ragazzi della Masia, ovvero la scuola calcio ‘blaugrana’. Questo a coronamento di un progetto - frutto della mentalità che da sempre caratterizza il club – che dura da tempo, una serie di anni nel corso dei quali i giocatori usciti dalle giovanili non sono mai stati meno di due terzi del totale di quelli che hanno vinto campionati e alzato coppe.

Ammettendo comunque che tanto (pur inevitabile) parlare della magnificenza del Barcellona possa alla fine risultare stucchevole, desidero portare altri esempi illustri di squadre straniere capaci di ottenere risultati straordinari più o meno quanto quelli dei catalani – oltre che in largo anticipo rispetto a loro. La mia speranza è che questo resoconto riesca ad ammorbidire la posizione di chi detesta il Barcellona attribuendogli (erroneamente) il ruolo di primo o comunque inarrivabile asso pigliatutto della storia del calcio.

Citazione d’obbligo per un’altra spagnola o meglio la spagnola che col Barcellona condivide la stessa avversione alla centralità politico-culturale: l’Athletic Bilbao. I biancorossi hanno vinto molto: 23 Coppe del Re e 8 campionati, risultando rispettivamente secondi e quarti nella graduatoria delle squadre più vincenti in queste due competizioni. Con Real Madrid e Barcellona, inoltre, sono i soli a non essere mai retrocessi e anche per questo occupano il quarto posto nella classifica di Prima Divisione spagnola tutti i tempi. Tanti successi, però, valgono ancor di più considerando che il club si affida esclusivamente a giocatori baschi o comunque cresciuti nelle giovanili di club compresi nel territorio basco come definito nel suo statuto.  

Proprio l’attuale allenatore dell’Athletic, l’argentino Marcelo Bielsa, costituisce l’anello di congiunzione con un’altra squadra che dell’identità ha fatto un credo irrinunciabile: il Newell’s Old Boys di Rosario. L’ex squadra, fra gli altri, di Batistuta, Balbo, Sensini, Samuel, Heinze e anche Messi (che nelle sue giovanili ha giocato fino ai 12 anni prima di passare a quelle del Barcellona) è riuscita a raggiungere due finali di Copa Libertadores praticamente solo con calciatori fatti in casa. Pur avendo perso sia nel 1988 che nel ’92, ancora oggi alla Lepra possono andar fieri di aver schierato 18 ex ragazzi del vivaio su 18 nella prima occasione e 22 su 25 nella seconda. Bielsa sedeva in panchina nel ’92 mentre in campo tutt’e due le volte andò il Tata Martino, c.t. del Paraguay fino allo scorso giugno, che ha appena firmato proprio col ‘suo’ Newell’s rifiutando un’offerta multimilionaria della Federazione colombiana. “L’amore conta di più”, ha dichiarato con illuminante semplicità.

In Sud America meglio andò al Flamengo che, oltre a 3 titoli brasiliani e uno statale in tre stagioni, nel 1981 portò a casa sia Libertadores che Intercontinentale schierando da titolari nelle finali otto giocatori provenienti dal vivaio. Fra loro Zico e l’ex granata Junior, protagonisti anche del Brasile ’82 entrato nel mito nonostante non vinse i Mondiali di Spagna. Complice l’entusiasmo per quella Nazionale, a cui erano automaticamente oltre che correttamente associati essendo il club più rappresentato fra i titolari, i rossoneri di Rio de Janeiro assursero a squadra-simbolo dell’epoca, come ogni quaranta o cinquantenne di oggi può testimoniare. Benché il loro dominio fu breve, riuscirono a infiammare la fantasia degli appassionati di tutto il mondo tanto da guadagnarsi una popolarità analoga a quelle del Liverpool di Dalglish (contro cui fra l’altro il Flamengo vinse l’Intercontinentale), del Real Madrid di Di Stefano, del Bayern di Beckenbauer, dell’attuale Barcellona e dell’Ajax di Cruijff (figura centrale, quest’ultimo, nei progetti calcistici dei Lancieri prima e dei ‘blaugrana’ poi). 

Tornando all’Europa, non meno importante è quanto fatto dal Manchester United nel 1999. Quell’anno ottenne il Treble, com’è definita in Gran Bretagna la vittoria di campionato, Coppa d’Inghilterra e Champions League nella stessa stagione, e lo fece con tantissimi ragazzi del vivaio: Beckham, i due fratelli Neville, Brown, Scholes, Butt e Giggs. Con Alex Ferguson alla sua guida da un quarto di secolo, Giggs che gioca ancora, Scholes e Neville che si sono ritirati da poco ma continuano a far parte della società con incarichi diversi e il lancio di tanti altri ragazzi dell’Academy, l’identità dei Red Devils risulta ancora molto forte nonostante i numerosi acquisti degli ultimi anni. Non dimentichiamo, oltretutto, che stiamo parlando del club in cui giocarono i famosi Busby Babes, tutti ragazzi passati in massa dalle giovanili alla prima squadra sotto il manager scozzese Matt Busby, che all’età media di 21 e 22 anni seppero vincere due campionati di fila arrivando anche a sfiorare la conquista della Coppa dei Campioni prima che otto di loro perdessero la vita nella sciagura aerea di Monaco consumatasi nel ’58. Caso più unico che raro – oltre che documentato - già a quei tempi, erano stati tutti loro in prima persona, nessuno escluso, a non volersi trasferire altrove nemmeno in presenza di sostanziose offerte economiche e fu poi il loro manager, pur nell’urgenza di ricostruire la squadra dopo la tragedia, ad esitare prima di andare sul mercato col prevedibile risultato di snaturare un ambiente che dell’identità aveva fatto la propria forza oltre che il principale punto d’orgoglio.

Guardando invece al futuro, in questi mesi a Buenos Aires sta prendendo corpo un progetto analogo a quelli citati ma addirittura con un ingrediente in più. Che si tratti di ex ragazzi delle giovanili, semplici cavalli di ritorno o calciatori dichiaratamente suoi tifosi pur senza trascorsi nel club, al River Plate si sta infatti costituendo uno zoccolo duro di fedelissimi pronti a tutto pur di far tornare la Banda nella massima serie e più in generale all’antico splendore. Partiti nel giro di poche stagioni gli ex ragazzini del vivaio Higuain, Alexis Sanchez e Lamela, tornati Cavenaghi e Alejandro Dominguez, ha appena firmato Trezeguet e si attendono, presto o tardi, i rientri di D’Alessandro, Saviola e Aimar. Nel frattempo Almeyda ha dichiarato esplicitamente che l’immediato coinvolgimento di ragazzi delle giovanili è al centro del suo progetto ed è per questo che accanto ai vari Ocampos, Cirigliano, il già capitano dell’Argentina Under-20 Pezzella, Ramiro Funes Mori e forse il gemello Rogelio (l’unico a rischio cessione), schiererà Andrada, Cazares e magari anche il figlio di Simeone, Giovanni. Certo, di successi non ne sono ancora arrivati ma si sta facendo di tutto per ottenerli – e nel modo migliore possibile. Per mano, va detto, di un presidente (Passarella) e di un allenatore (il citato Almeyda) a cui è stato più volte attribuito il tifo da bambini per il Boca. Ora, delle due cose una: o quel che si maligna non è vero o sono due grandi professionisti. La storia, quella, dice invece che sono stati entrambi capitani del River e Almeyda anche ex componente delle giovanili – quindi forse condottiero ideale in questo momento storico.

In controtendenza rispetto al passato, deludono due club da sempre associati alla tradizione: Celtic e Rangers. L’identità legata ai due arcirivali scozzesi è dipesa per anni, ben più di un secolo, dalla fede religiosa: i primi schieravano solo cattolici, i secondi solo protestanti. Pochissime le eccezioni, come rarissimi di conseguenza i passaggi da una squadra all’altra; fra i casi anomali e a modo loro eclatanti la fascia di capitano dei Rangers affidata anni fa all’italiano Lorenzo Amoruso e l’elezione a icona del Celtic di un tifoso dichiarato dei Rangers come Kenny Dalglish. Ultimamente, però, le cose sono cambiate in modo clamoroso: delle restrizioni riguardo la fede praticamente non c’è più l’ombra e il numero di giocatori scozzesi è sensibilmente calato. Mettendo assieme le due rose sono 27 i calciatori extrabritannici, che diventano addirittura 40 includendo anche quelli delle isole britanniche non scozzesi; gli scozzesi, su un totale di 68, sono infatti appena 28. Spiace notare questa inversione di tendenza anche perché, numeri alla mano, non sta portando vantaggi: la supremazia in campionato dei due giganti di Glasgow continua esattamente come prima, dato che sono 26 anni che a laurearsi campione di Scozia non è un’altra squadra, e in Europa il massimo conseguimento nelle ultime stagioni, sempre fra tutt’e due, è la partecipazione dei Blues alla finale di Europa League del 2008 persa contro lo Zenit che ha fatto seguito appena a quella del Celtic, ugualmente persa ma contro il Porto, del 2003 – nei precedenti cinquant’anni nel complesso avevano vinto due finali e altre tre le avevano perse. Insomma, tanto varrebbe restare fedeli alla tradizione...  

Restano d’esempio due colossi del calcio mondiale: Ajax e Bayern. Gli olandesi, tradizionalmente propensi ad affidarsi ai propri giovani, prima di cedere benché parzialmente alla globalizzazione hanno vinto le loro due ultime coppe europee schierando da titolari 5 ex del vivaio nella doppia finale di UEFA del ’92 contro il Torino e 6 (7 col match winner Kluivert, allora 19enne, subentrato dalla panchina) nella finale di Champions del ’95 contro il Milan. Fecero ancora meglio rispetto ai primi, dorati anni Settanta quando vinsero tre Coppe dei Campioni di seguito rivoluzionando il calcio senza peraltro che l’ammirazione altrui lasciasse il posto all’insofferenza come sta succedendo col Barcellona di Guardiola. I tedeschi dal canto loro non hanno abbandonato i Talent Days, tradizionali selezioni estive riservate ai giovanissimi talenti residenti rigorosamente nell’area di Monaco di Baviera, e parallelamente mantengono attiva una fitta rete di scuole calcio internazionali affiliate. La globalizzazione e la trasformazione del mercato però su di loro stanno avendo la meglio e il risultato è che poco alla volta, pur restando encomiabile la loro idea di calcio, stanno perdendo identità.

Quel che vale per la società non deve necessariamente riflettersi nello sport. Se il calcio e con esso ogni disciplina principe di una determinata nazione possono essere lo specchio della vita che vi si conduce, sul piano dell’identità e in termini di quanto possono dare piuttosto che accogliere la loro originalità dovrebbe rappresentare una ricchezza. Per quanto sia improponibile il modello di un calcio fatto da club costituiti esclusivamente di prodotti dei loro vivai, la predominanza di questi ultimi prima ancora che di rappresentanti nazionali dovrebbe essere garantita. Considerate nel loro complesso, le decine di migliaia di società professionistiche esistenti al mondo fornirebbero uno spaccato reale delle capacità di ogni territorio. E, come dimostrato, questo non precluderebbe alcun traguardo. Non lo farebbe, a maggior ragione, se ci si misurasse tutti ad armi pari, contando sull’impegno e il talento piuttosto che sui soldi. Non è retorica né tanto meno economia: più sport.