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di Stefano Rosso
Il paradosso del calcio italiano si riflette pienamente nell’organizzazione delle proprie competizioni nazionali. Come da un lato ci si lamenta e ci s’indigna per il problema del ricambio generazionale nel campionato nostrano, nell’abbassamente del livello generale dei giocatori, della competitività in Europa, ma poi anziché invertire la tendenza, ci si continua a rivolgere al mercato estero alla ricerca di giocatori, non solo affermati (guardare le formazioni giovanili della maggior parte delle formazioni di serie A per credere..), per rinforzare le squadre, a crocifiggere i giovani esordienti al primo errore… anche l’approccio alla Coppa Italia, torneo che anni di tentativi di rilancio - con il susseguirsi di numerose innovazioni di astratta derivazione inglese – hanno più danneggiato che favorito, rimane sulla medesima falsariga.L’ultima introduzione implementata, la formula a partita secca con sfida in casa della più quotata (perché in Italia, terra di privilegi, la squadra più forte non solo ha il vantaggio di essere più forte, ma le si concede anche di giocare in casa), col passare degli anni sta ampiamente dimostrando il proprio fallimento, nonostante – tacitamente – si faccia finta di non accorgersene: la conferma però arriva proprio dai numeri, share televisivo e affluenze allo stadio, che fanno persino dubitare della sostenibilità economica della competizione stessa da parte delle società che arrivano alle fasi finali.La dimostrazione più chiara arriva, ad esempio, dal cammino in Coppa Italia della Lazio: la formazione del tecnico Edi Reja, introdotta nella competizione al terzo turno preliminare nel primo gruppo delle squadre di serie A, ha dovuto affrontare le non irresistibili sfide contro Portogruaro ed Albinoleffe per conquistarsi il derby con la Roma degli ottavi di finale.Senza discutere il calendario favorevole – anche se la storia del calcio insegna che è bene diffidare di ogni partita semplice sulla carta – a decretare il fallimento della formula sono stati i numeri che hanno accompagnato le compagini sul terreno di gioco dell’Olimpico: uno stadio da 73 261 posti che ha visto affluire, nelle due gare, meno di diecimila presenze in tutto, tra cui meno di un centinaio di sostenitori ospiti.Analizzando i dati ufficiali dei due incontri si può osservare che il Portogruaro di Viviani ha attirato la bellezza di 4 503 spettatori, compresi 80 provenienti dal Veneto, mentre l’Albinoleffe del “Mondo” – nel turno successivo – è riuscito a peggiorare il dato, scadendo a 3 664 presenze, compresi una manciata di tifosi ospiti. Alla luce di questi numeri, considerando i più di settantamila posti a disposizione, ci si può facilmente rendere conto dell’effetto e dell’appetibilità della competizione sul pubblico.Se a questi dati si aggiunge un ipotesi di conteggio economico a carico delle società ospitanti, tra costi di gestione (personale, illuminazione, manutenzione campo ecc…) ed amministrazione (uffici stampa, riprese e ritrasmissioni televisive e radiofoniche), ci si può persino domandare se questa formula non risulti addirittura dannosa per le squadre stesse.Provando invece a ribaltare la situazione, con la Lazio ospite una volta al “Mecchi” di Portogruaro (3 335 posti) e l’altra all’ “Atleti Azzurri d’Italia” di Bergamo (24 726), e considerando la disponibilità decisamente inferiore degli impianti sportivi, ma soprattutto l’appetibilità decisamente superiore delle partite – gli amaranto di Viviani fino a quattro anni fa disputavano il campionato interregionale – per i tifosi delle squadre di divisione inferiore, la soluzione per ravvivare e restituire interesse alla Coppa Italia – stavolta, oltrettutto, realmente ispirata al modello inglese che prevede l’incontro disputato in gara unica sul terreno di gioco della più debole – e riportare, vista la tendenza del momento, le famiglie allo stadio non sembrerebbe essere tanto assurda o di difficile postulazione.
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