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Il piccolo Meo e la Champions League

Redazione Toro News
di Walter Panero

Quando scrissi questo racconto nel maggio del 2009 avevo in mente un giocatore piccolo-piccolo, ma nel contempo grande grande. Insomma, inutile nascondersi: avevo in mente Leo Messi. Qualche settimana dopo, a Roma, il Barcellona batté per 2 a 0 il Manchester United salendo per la terza volta nella sua storia sul tetto d'Europa. Dopo il gol di Eto'o, fu proprio Messi a siglare la rete del raddoppio, in circostanze che mi fecero pensare di essere stato abbastanza profetico nello scrivere il racconto, anche se forse un po' troppo sognatore nell'attribuire la maglia al protagonista di questa storia...Beh....adesso basta! Mica posso raccontarvelo tutto, questo racconto! Dunque mi fermo qui e vi auguro buona lettura!

 

Si chiamava Bartolomeo ed era sempre stato il più piccolo di tutti. I suoi coetanei, nel paesino in cui era nato e cresciuto (si fa per dire), lo prendevano sempre in giro sia per quel nome da vecchio che il padre gli aveva imposto per ricordare il nonno morto sotto un trattore (ma non poteva chiamarsi Marco o Luca come tutti?), che per la sua statura. Era troppo basso per qualsiasi cosa: troppo basso per aiutare i genitori in campagna quando veniva il momento di raccogliere i frutti della terra, troppo basso ed esile per piacere alle ragazze, troppo basso per essere chiamato dagli amici a giocare con loro.Se ne stava spesso solo, Meo (per tutti era semplicemente Meo). Solo con i suoi pensieri. Solo a guardare da lontano l’alto monte appuntito e pieno di neve che si stagliava sullo sfondo e sembrava far da guardia al paese. Solo con i suoi mille sogni che lo portavano lontano da lì. Guardava i suoi coetanei che giocavano a pallone e non lo chiamavano mai con loro, salvo quando mancava qualcuno: e in quel caso lo mettevano sempre in porta, dove, a detta loro, avrebbe fatto pochi danni. In realtà, proprio la sua bassa statura gli impediva di giocar bene in porta. Eppure, anche se nessuno lo sapeva, Meo col pallone ci sapeva davvero fare. Visto che era sempre solo passava ore ed ore con la palla nel cortile di fronte alla cascina dove vivevano i suoi: dribblava le galline che beccavano qua e là, sfidava nell’uno contro uno i cani che nella sua fantasia si trasformavano nei difensori dell’altra squadra. Mandava infine la palla tra un albero e un palo della luce, che per lui rappresentavano  i pali della porta di uno di quei grandi stadi che, quando poteva, ammirava alla televisione sempre pieni di gente. Quando segnava correva, urlava ed esultava come un matto. Sua mamma pensava che davvero quel figliolo non le fosse venuto così bene come avrebbe sperato. Voleva che studiasse, ma la scuola non gli piaceva. Sperava almeno che potesse lavorare in campagna con loro, ma lui non faceva altro che correre da solo appresso al pallone. Indossava sempre la stessa maglietta: una maglietta granata che, qualche anno prima, gli aveva regalato un suo cugino che abitava nella grande città non lontana dal suo paese. Quando gli venne regalata era enorme, ma lui la metteva lo stesso. E anche ora che lui era cresciuto un pochino, la maglia gli era comunque tanto grande. Ma lui non la toglieva mai, per nessun motivo.Un giorno di primavera, Meo giocava come al solito in porta. La sua squadra aveva già subito quattro gol. I suoi avversari lo prendevano in giro, mentre i compagni lo rimproveravano ad ogni gol subito. “Adesso basta!” pensò il piccolo Meo “ve la faccio vedere io!”. Attese che il pallone gli arrivasse tra le mani e poi, anziché passarlo al compagno più vicino come faceva sempre, mise la sfera a terra e partì palla al piede. Di fronte non aveva galline, non aveva cani, ma altri ragazzini in carne ed ossa. Eppure il risultato fu lo stesso che Meo otteneva in cortile quando affrontava i suoi animali. Mentre i suoi compagni gli urlavano di non fare pazzie e di passar loro la palla, Meo, come impazzito, saltò uno, due, tre avversari. Avanzò palla al piede. Superò un altro paio di ragazzi e si trovò solo di fronte al portiere che gli venne incontro urlando a braccia larghe. Meo non fece una piega, con calma attese l’uscita, dribblò anche lui e depose la palla nella porta sguarnita. Gli avversari rimasero senza parole. I suoi compagni, anziché correre ad abbracciare Meo che festeggiava da solo, lo guardavano con stupore e un po’ di invidia. Uno di loro, che indossava sempre una maglia a strisce col numero undici e che a Meo, anche per la sua folta capigliatura bionda, ricordava qualcuno, riprese a sfotterlo ancora.“Stavolta hai avuto fortuna! “ disse “ma scommetto quello che vuoi che non sarai in grado di rifare nulla di simile nei prossimi cinque anni. Meo annuì. Si rimise in porta. Il pallone gli arrivò nuovamente. Nuovamente partì palla al piede. Nuovamente saltò una miriade di avversari. Anche il biondo, che in teoria era un compagno, cercò di fermarlo intervenendo fallosamente da dietro, ma Meo se ne accorse in tempo. Con un salto evitò il contatto. Era di nuovo solo davanti al portiere, che ancora gli uscì incontro. Stavolta, il ragazzo scelse di scavalcarlo con un dolce pallonetto. Gli avversari, differentemente da prima, si fermarono ad applaudire. Mentre tutti i compagni, tranne il biondo che masticava amaro in un angolo, corsero ad abbracciare il piccolo Meo.Vicino al campetto c’era un uomo. Un elegante signore sulla cinquantina con i baffi ed un grosso cappello. L’uomo, che aveva un blocchetto per gli appunti in mano, aveva seguito con attenzione le giocate di Meo, anche se lui e gli altri ragazzi non se n’erano assolutamente accorti.Alla fine della partita, finita 5 a 4 per la squadra di Meo che aveva segnato tutti i gol dei suoi, l’uomo con i baffi si avvicinò al piccolo calciatore in maglia granata.“Complimenti ragazzo! Da tempo non vedevo delle giocate simili!” disse l’uomo mentre Meo arrossiva timidamente “ Abiti da queste parti tu? Avrei piacere di scambiare due parole con i tuoi genitori: li trovo a casa adesso?”Meo diede un’occhiata al suo piccolo orologio di plastica. Erano da poco passate le cinque di quel giorno di maggio. “A quest’ora i miei sono a lavorare nei campi. Ma se proprio vuole parlare con loro può venire da noi stasera dopo cena. Adesso le spiego come fare a raggiungere casa nostra….”Alle otto e mezza in punto, il signore coi baffi si presentò a casa di Meo. Per tutta la sera il ragazzo non fece altro che chiedersi chi fosse quell’uomo. Perché fosse lì e per quale motivo avesse così urgenza di parlare con i suoi. Inutile porsi troppe domande, pensava Meo. Tra poco saprò che cosa vuole quell’uomo da me e dai miei. L’uomo se ne andò dopo un paio d’ore. Meo lo vide dalla finestra che si allontanava a bordo della sua elegante vettura. Il ragazzo se ne stava in stanza tutto solo. Nessuno saliva a dirgli niente. A un certo punto sentì i suoi genitori che discutevano a voce alta. E iniziò a capire.“Meo l'è mac 'na masnà....è solo un bambino….ma te lo vedi tutto solo….tut sul ‘n cula sità(1)….e poi deve ancora finire la scuola. No…lasciamo perdere…lui se ne sta qui perché deve studiare e presto si toglierà dalla testa ‘sto cavolo di pallone….”“Ma quel signore è stato chiaro: ha detto che da anni non vedeva nessun ragazzo di quest’età giocare come nostro figlio. E’ la sua grande occasione. Lasòmlo ‘ndè…(2)”“Eh…la fai facile te….e se poi non va bene? E se poi fallisce? Sai che bella delusione per ‘l cit (3)? Che cosa farà quando si troverà, magari a vent’anni, a dover rinunciare ai suoi sogni, senza avere in mano niente?”“Ma quel signore ha detto che lo faranno studiare…e poi ti ricordo che gli daranno anche un bel po’ di soldi che ci farebbero comodo. L’avresti mai pensato che tuo figlio, a 13 anni, sarebbe riuscito a guadagnare tutti quei soldi di cui quell’uomo parlava?”“Sì ma….”“Sent: fuma parej. Lasòmlo ‘nde. Se vuole, se ci tiene, lasciamolo andare. In fondo siamo fortunati: la città è a soli cinquanta chilometri da qui. Potrà venire sovente a casa. E noi andare da lui. Diamogli un limite: un paio d’anni. Se non andrà avanti, lo capirà da solo: è un ragazzo sveglio e vedrai che sarà lui per primo a tornarsene a casa….”La città era troppo grande per il piccolo Meo. Pensava spesso a casa sua. Gli mancava la vita all’aria aperta. Gli mancava la sua mamma. Viveva con altri tre ragazzi della sua età in un piccolo appartamento non lontano dal campo dove tutti i giorni andava ad allenarsi. Era dura: la mattina c’era la scuola, mentre al pomeriggio ci si allenava tanto. E poi, nel fine settimana, c’erano le partite, spesso in posti lontani che Meo mai avrebbe pensato di vedere nella sua vita. Aveva tanta nostalgia. Era spesso stanco. Ma era anche molto felice: non gli pesava allenarsi, perché per lui giocare era sempre stata una festa e una gioia sublime. Quando i compagni lasciavano il campo, lui rimaneva ancora un po’. Provava nuove giocate. Tiri da posizioni strane. La domenica, a volte, Meo veniva chiamato con i suoi compagni a bordo campo a fare il raccattapalle. Gli piaceva stare in campo. Lo esaltavano i cori di incitamento della curva che per lui era la più bella di tutte. Lo emozionava tanto osservare così da vicino i giocatori che lui, fino a qualche mese prima, vedeva solamente in televisione.Meo cresceva in età, ma rimaneva sempre il più piccolo di tutti. Nelle foto di gruppo che facevano alla squadra non si notava tanto, perché lui stava sempre in ginocchio. Ma quando le squadre si schieravano in campo, si vedeva chiaramente che lui rendeva ai compagni ed agli avversari come minimo una ventina di centimetri. Evidentemente, però, per gli allenatori questo non era un problema. Meo giocava sempre. Con la sua maglia granata, che adesso gli calzava a puntino visto che glie la confezionavano apposta per lui. Il ragazzo dribblava e segnava. Tanto. Tantissimo.Ormai aveva compiuto sedici anni e tutti, anche sua mamma, avevano capito che il calcio sarebbe stata la sua professione. La sua vita. Arrivavano soldi. C’erano tante squadre che lo cercavano, ma lui voleva rimanere lì. Quella era ormai la sua città. Quella era la sua squadra da sempre, quella che sognava fin da bambino. Non voleva andarsene. Non ora che, dopo tanti anni di sofferenze, la sua squadra era finalmente tornata a giocare ad altissimo livello. Non poteva e non voleva andarsene ora! Ora che la sua squadra stava per prender parte alla Champions League. Il Santiago Bernabeu dà emozione non appena entri negli spogliatoi e pensi che lì si sono  cambiati Di Stefano e Puskas, Juanito e Santillana, Michel e Butragueno. Entrando in campo, poi, senti il boato di 100.000 persone che urlano all’unisono sventolando drappi bianchi. E ti si gela il sangue. E’ quello che in Spagna chiamano miedo escenico.Meo, che in quell’assoluta grandezza sembrava ancora più piccolo, era lì e il cuore gli batteva forte. Qualche giorno prima, l’attaccante titolare si era infortunato ed era parso evidente che non avrebbe potuto dare il suo contributo in quella partita. Il Mister aveva telefonato a Meo in fretta e furia due giorni prima dell’incontro chiedendogli di raggiungere la squadra in ritiro. Sulle prime, il giovane pensò ad uno scherzo di qualche compagno. Ma poi capì che era tutto vero: avrebbe fatto parte, sia pure come riserva, della squadra che avrebbe giocato la partita più importante della storia del suo glorioso, ma sfortunato club: la finale di Champions League.Meo si guardava intorno. Guardava il campo. Pensava che in quella porta tanti anni prima l’Italia aveva segnato i tre gol che le avevano permesso di diventare Campione del Mondo. Pensava che, qualche anno dopo, in quell’altra porta il bomber brasiliano aveva portato in vantaggio la sua squadra facendo vivere ai suoi tifosi alcuni tra i momenti più belli della loro storia. Pensava anche che la sua squadra, pur nell’enormità del momento, era sfortunata come sempre: quanti club arrivano a giocarsi la finale di Champions League e, per ironia della sorte, si trovano a dover affrontare proprio la formazione di casa?Lo sguardo del giovane andò su quella macchia granata lassù. Li sentiva. Erano i suoi tifosi. La sua gente. Pochi, ma rumorosi come sempre. C’era suo padre lassù, mentre la mamma era rimasta a casa a guardare le bestie.Meo se ne stava rincantucciato nell’angolo della panchina. Soffriva tanto per la sua squadra. Il Real Madrid era la grande favorita e, oltretutto, poteva giocarsi quella finale in casa. Pochi pensavano che i granata sarebbero riusciti a resistere alla forza d’urto degli spagnoli. E in effetti, le Merengues attaccarono a testa bassa nei primi minuti, costruendo molte occasioni. Ma, un po’ per fortuna, un po’ per la bravura del portiere, i granata riuscirono a resistere e il primo tempo si concluse a reti inviolate. Era solo questione di tempo, pensavano tifosi e giornalisti sugli spalti. A furia di attaccare, il Real sarebbe riuscito a trovare il modo per forzare il bunker avversario e a quel punto sarebbe stato tutto facile. E invece, i granata, nel secondo tempo scesero in campo con maggiore determinazione. Impegnarono per due volte il portiere avversario e, proprio all’ultimo minuto, presero un palo clamoroso. Meo aveva le mani nei capelli ricci. La solita sfortuna, pensava mentre le squadre si apprestavano ad affrontare i supplementari. E’ sempre così. Sempre così: andiamo sempre a un passo dalla grande vittoria, ma poi succede qualcosa che ce la nega. E’ così da sempre. Il tempo passava inesorabile e si era ormai nel secondo dei due supplementari. A quel punto, sembrava evidente che la partita si sarebbe risolta solo ai rigori. Ma mancavano ancora più di dieci minuti, quando il centravanti granata si buttò a terra dolorante: crampi. Si trattava di crampi, ed era chiaro che non sarebbe riuscito a restare in campo. Fu a quel punto che il mister si girò verso Meo, seduto in panchina, dicendo: “Ragazzo alzati, tocca a te! Vai in campo e dai tutto quello che hai!”.Meo fece finta di non aver capito, ma un suo compagno gli diede una pacca sulla spalla e lo spedì praticamente di forza in campo. Le gambe gli tremavano e si sentiva come paralizzato. Guardava il pubblico che non smetteva per un attivo di urlare. Guardava i suoi compagni ed i suoi avversari: tutti molto più alti di lui. Ma ci era abituato.Per alcuni minuti, Meo corse su e giù per il campo girando completamente a vuoto. Mancavano ormai un paio di minuti al termine della partita e Meo era convinto che l’avrebbe conclusa senza nemmeno toccare palla. Fu allora che il portiere della sua squadra recuperò la sfera con le mani e la lanciò lunga verso la metà campo madridista. Un compagno di Meo sfiorò la palla di testa spedendola ancora in avanti sulla destra verso un altro giocatore granata. L’esterno, esausto per aver corso su e giù per centoventi minuti, riuscì a trovare la forza per un ultimo scatto. Riuscì a saltare uno, due avversari. Meo seguiva con lo sguardo mentre cercava di muoversi in continuazione per eludere la marcatura del suo avversario: un tedescone più alto di lui di quasi mezzo metro. “Mettila bassa….mettila bassa…” pensava Meo mentre il suo compagno raggiungeva il fondo. Purtroppo, la palla venne calciata alta e sarebbe stata facile preda del portiere, a meno che….Meo fece due passi indietro e uno in avanti lasciando il suo avversario fermo sul posto. Il portiere si avventò sulla palla sicuro di prenderla comodamente, ma questa, non si sa come, gli sfuggì dalle mani. Un altro difensore madridista stava per rimediare all’errore del compagno ed era pronto a calciare lontano salvando ancora una volta la porta. Ma un piccolo puntino granata arrivò prima di lui. Meo era stato il più veloce a sopraggiungere e a colpire il pallone di testa. Di testa! Proprio lui che era sempre stato il più piccolo di tutti!Silenzio. Un irreale silenzio si impossessò dello stadio. Si sentiva, come da lontanissimo, l’urlo ovattato di poche persone. Meo non vide più nulla se non una macchia granata di compagni assatanati che gli saltavano addosso travolgendolo. I giocatori del Real Madrid erano a terra. L’arbitro aveva fischiato. La partita era finita. Una delle più grandi sorprese della storia dello sport si era appena consumata. Quella squadra che, solo pochi anni prima, lottava per non retrocedere, era ora sul tetto d’Europa.Il capitano diede a Meo la coppa dalle lunghe orecchie. Meo fece fatica a sollevarla: era grande quasi quanto lui. Tutti, in Spagnolo e in Italiano, facevano i complimenti a Meo, el hombre del partido. E mentre il capitano lo teneva sulle spalle, Meo guardava la coppa. E pensava. Pensava al suo paese, ai suoi prati e ai  suoi monti sullo sfondo. Agli amici che lo prendevano in giro e che ora sarebbero venuti a cercarlo. Alla sua gente lassù. A sua mamma lontana. A suo nonno materno morto da poco che gli aveva detto fin da piccolo di credere ai propri sogni. Alla favola di un bambino e di una squadra troppo piccoli per combinare qualcosa di veramente grande.

 

 

(1) In Piemontese: tutto solo in quella città. In Piemontese: lasciamolo andare. In Piemontese: il bambino.<