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di Walter Panero
Luci tutto intorno a me. Musica. Voci. Colori. Migliaia di persone di ogni età e di ogni provenienza sventolano sorridendo le loro bandiere e sembrano dire: “è proprio da qui che vengo io, ed è quello per me è il posto più bello del mondo”. Non importa se è davvero così. Lo è per loro, il resto conta poco. O nulla.
Me ne sto qui ed aspetto al buio senza che nessuno possa vedermi. In piedi su questa piattaforma da parecchi minuti. C'è un caldo che mi appiccica la maglietta chiara alla pelle. Un caldo che mi è famigliare. Un caldo che mi è quasi sempre stato amico, come in quel giorno di ottobre di più di vent'anni fa. Ma quella era l'Africa, la terra dei miei antenati. Invece questa è la terra dove sono nato. La terra in cui i miei avi si spezzavano le reni per coltivare i campi dei loro padroni. La terra che ho amato ed odiato. La terra che mi ha accolto come un re, e mi ha demolito come l'ultimo dei delinquenti.
D'improvviso, sento che il boato della folla aumenta e arriva quasi a coprire la musica che hanno messo in sottofondo. La gente sembra impazzita. Urla. Muove le mani. Agita i cappelli. Fa fotografie.In mezzo al campo, là dove si trovano i ragazzi con le loro divise da atleti, c'è un cerchio chiaro e luminoso con un buco al centro. Ed ecco che improvvisamente dal buco appare qualcuno. Ha una maglietta identica alla mia. Identico al mio è il colore della sua pelle. E anche il suo fisico non è poi tanto diverso da quello che io mi porto appresso da oltre cinquant'anni. Certo, è molto più giovane di me. E meno appesantito. Infatti, lui è in grado di correre tra le ali di folla festante, mentre io....beh....lasciamo stare...Dopo qualche istante riconosco quell'uomo. Lo seguo con lo sguardo mentre corre, corre, corre ancora in mezzo alla folla che appare letteralmente impazzita, come forse mai l'avevo vista in vita mia. Neppure quel giorno a Roma di tanti e tanti anni fa mi era apparsa così. Ma magari ricordo male: ero così giovane allora. Appena diciott'anni eppure già terribilmente cocciuto e convinto delle mie idee, tanto che al ritorno a casa gettai in fondo ad un fiume la medaglia d'oro che avevo appena vinto per conto di quella che fino ad allora avevo considerato la mia Patria, e verso la quale in quel momento provavo soltanto sdegno e rabbia. Eh sì perché mi rendevo conto di essere cresciuto in un posto dove esistevano ancora dei ristoranti in cui si vietava ai concittadini di entrare, solo per il colore della loro pelle. E se succedeva al Campione Olimpionico, figuriamoci ad un ragazzo normale. Che vergogna!Quanto tempo è trascorso da allora. Quante cose sono successe. Quante storie potrei raccontare. Come quella volta in cui mi sbatterono dentro e mi tolsero tutto perché mi ero rifiutato di partire per una guerra in cui mi avrebbero chiesto di sparare contro a persone che non conoscevo e che non mi avevano mai fatto niente di male. Mentre tanto male avevano fatto a me ed alla mia gente quegli stessi per gli interessi dei quali avrei dovuto andare a sparare e magari a morire.
Ma lasciamo perdere questi pensieri adesso e torniamo qui. Ad un certo punto, l'uomo di prima rallenta, e c'è una donna che lo attende. Non l'ho mai vista in precedenza, ma noto che si tratta di una ragazza piccolina che indossa una maglietta bianca con i bordi azzurri. Ora corrono insieme, affiancati, mano nella mano. Il boato aumenta ancora. E con esso anche la mia emozione.
I due ragazzi, lei bianca e lui nero - ma che importa? - proseguono la loro corsa tra la folla. Fino ad incontrare un'altra ragazza alta e piuttosto carina. Lei sì che la conosco! Cioè non personalmente, ma l'ho vista diverse volte in televisione vincere e vincere ancora nelle gare di nuoto. Una grandissima atleta anche lei. Una che non deludeva mai. Un po' come me, ai miei tempi.
La ragazza si muove bene anche sulla terra, e non solo nell'acqua, e riprende a correre. Tiene qualcosa nella mano destra e con l'altra saluta la gente. Corre. Corre anche lei sulla pista, tra una folla che adesso si domanda: “Ma sarà lei l'ultima? Ma sarà lei l'ultima?”. Loro non possono vedermi, perché io mi trovo al buio, nascosto alla vista di tutti. Tra poco le luci si accenderanno e tutti potranno individuarmi. Ma non adesso. Ora è troppo presto. Ancora pochi minuti e tutto il mondo saprà. Ancora pochi minuti e...
La ragazza corre, corre, corre. Sale sul lungo scivolo azzurro che porta verso il posto dove mi trovo io. Ora sembra un po' affaticata dopo la lunga corsa. Ma continua a correre. E la vedo avvicinarsi a me. Sempre di più. Sale. Sale ancora. E' a dieci, cinque, due metri da me. Vedo che allunga l'oggetto che tiene in mano in direzione del mio braccio. Questo braccio, questo stramaledetto braccio che mi ha reso famoso in tutto il mondo non vuole saperne di stare fermo e di rispondere ai comandi che il mio cervello gli manda. E' così da almeno dodici anni, oramai. E ci sono quasi abituato. Anche se poi a certe cose non ci si abitua mai fino in fondo.
D'improvviso, l'oscurità che mi aveva circondato fino a quel momento viene rotta da un fascio di luce che ora tutto mi avvolge. La gente ora mi riconosce, e intorno a me si scatena l'uragano. Perché solo un uragano può avere questa potenza.Quello stesso uragano mi dà la forza di allungare il mio braccio verso quello della ragazza, tenendolo il più possibile fermo. La ragazza sorride, ed è un sorriso che mi da una carica incredibile perché sembra dire: “sì, sei vecchio, e malato, ma ce la puoi fare, adesso!”. La stessa cosa stanno pensando e dicendo tutte le persone che stanno qui ed ora possono vedermi.
Sempre col braccio destro sollevo la fiaccola verso l'alto. La tengo ferma, immobile. Mentre il mio braccio sinistro se ne va per i fatti suoi. La tengo in mano per diversi, lunghissimi secondi. Faccio fatica, ma per Allah, ci riesco eccome! Muovo lentamente la testa verso destra, poi verso sinistra. Osservo la gente, la mia gente in delirio. Più di quando mi vedeva vincere. Perché, e la gente lo capisce bene, questa è sicuramente la più bella vittoria della mia vita. Della vita di chi diceva di essere il più grande e forse lo era davvero. O forse lo era, ma solo a parole.
Dopo averla sollevata verso l'alto in modo da farla vedere a tutti, porto la fiaccola verso il basso, aiutandomi anche con l'altra mano. La tengo ferma nel punto che mi avevano indicato prima. Subito non succede nulla, ma poi una luce si accende, si muove verso l'alto fin quasi ad abbagliarmi. Pochi secondi ed è luce su tutto lo stadio, su tutta la città, su tutta la Nazione, su tutto il Mondo. La gente commossa scandisce il mio nome. Il nome che mi sono scelto e non quello che mi è stato imposto da un passato di sangue che ho sempre rinnegato.
“A-lì! A-lì! A-lì!” gridano tutti: bambini, giovani, adulti, vecchi, gente da ogni parte del mondo. Perché tutti mi riconoscono.
“A-lì! A-lì! A-lì!” come quella volta a Kinshasa, come quella volta a Manila, come tutte le volte in cui salivo sul ring a combattere, a saltellare, veloce come una farfalla e pungente come un'ape. Io che adesso faccio fatica a muovermi per pochi metri e sono diventato lento come un bradipo.
“A-lì! A-lì! A-lì!”. Ancora. Più forte che mai.
Accenno un sorriso e sento che anche i miei occhi stanno diventando lucidi. Immagino che la stessa cosa stia accadendo agli occhi di miliardi di persone in tutto il mondo. Qualcuno penserà che sono patetico a mostrarmi così, debole ed ammalato davanti al mondo intero. Ma io so di aver vinto ancora una volta la mia partita. Quella più importante. Quella in cui ho dimostrato che neanche la malattia più grave impedisce all'uomo di fare grandi cose, purché quello stesso uomo sia assistito da una forza di volontà senza pari. Ancora una volta, oggi più che mai, ho dimostrato di essere il più grande.
Muhammad Alì, al secolo Cassius Clay, ha compiuto settant'anni martedì scorso, essendo nato a Louisville (Kentucky) il 17 gennaio del 1942. E' stato uno dei più grandi campioni che la storia del pugilato ricordi e probabilmente uno degli sportivi più conosciuti ed amati di sempre.Con questo breve racconto, scritto in prima persona, ho cercato di entrare nei suoi pensieri durante la Cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Atlanta del 1996 di cui Alì fu l'ultimo tedoforo, malgrado il Morbo di Parkinson che l'aveva colpito alcuni anni prima lo limitasse notevolmente nei movimenti.
Per la cronaca, il tedoforo di colore che per primo portò la fiaccola dentro lo stadio fu Evander Holyfield, all'epoca campione del mondo dei pesi massimi, famoso per il morso all'orecchio rifilatogli da Mike Tyson nel corso di un match valido per il titolo mondiale nel 1997. La penultima tedofora, quella che passò la fiaccola nelle mani di Alì, fu invece Janet Evans, statunitense, tre volte medaglia d'oro nel nuoto alle Olimpiadi di Seul 1988 ( 400 e 800 metri stile libero, 400 misti) e una volta in quelle di Barcellona (800 metri stile libero).Il match di Kinshasha (Congo, all'epoca Zaire) cui Alì fa riferimento, è quello in cui il 30 ottobre del 1974 Cassius Clay riconquistò il titolo mondiale dei massimi a spese del favorito e giovanissimo George Foreman per K.O. all'ottava ripresa. Un match da leggenda che seppe ispirare anche il cortometraggio “When we were kings” del 1996 premiato con l'Oscar. Alì si riprese così la corona mondiale, dopo che la licenza pugilistica gli era stata revocata nel 1967 quando l'atleta si era rifiutato di partire per la guerra del Vietnam.Questo era il Campione.Questo è l'Uomo. Non c'è molto altro da aggiungere.
Chi volesse vedere le immagini della Cerimonia di apertura di Atlanta 1996 può cliccare qui:
Ecco invece alcuni filmati relativi alla carriera di Muhammad Alì:
Alì vs Sonny Liston 25 febbraio 1964:
Alì vs Joe Frazier 8 marzo 1971:
Alì vs Gorge Foreman 30 ottobre 1974:
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