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di Andrea Ciprandi
Questa rubrica intende essere una finestra sul panorama calcistico mondiale. Partendo non necessariamente dalla cronaca, mira a offrire spunti di riflessione rispettosi delle diverse identità di questo sport nei tanti luoghi ove è praticato, con un occhio parimenti attento alle realtà di cui meno si parla.
In un periodo in cui la stampa maggiore è propensa a celebrare gli allenatori più pagati o chiassosi, quelli che offrono più spunti di cronaca fuori dal campo, è bene sottolineare l’importanza della permanenza nel mondo del calcio di un personaggio di primissimo piano da quasi mezzo secolo: Kenny Dalglish.
Il riferimento alla sua prolungata attività non è casuale poiché l’attuale manager del Liverpool è stato segnato da tre delle maggiori tragedie calcistiche di tutti i tempi, di ognuna della quali fu diretto testimone: Ibrox, Heysel e Hillsborough. Nella prima occasione, risalente al ’71, era sugli spalti quando 66 tifosi dei Rangers morirono schiacciati dalla folla al termine di un Old Firm, il derby col Celtic; nel 1985, nella finale di Coppa dei Campioni fra Liverpool e Juventus, era invece in campo al che persero la vita 39 fra tifosi inglesi e italiani; nel 1989, infine, nella semifinale di Coppa d’Inghilterra fra Liverpool e Nottingham Forest prima della quale morirono nella calca 94 tifosi dei Reds (a cui se ne sarebbero aggiunti altri 2 deceduti in ospedale), era seduto in panchina. Ebbene, proprio in seguito a quest’ennesima tragedia a cui aveva assistito personalmente – che lo aveva spinto a partecipare a quanti più funerali delle vittime gli fu possibile - aveva dichiarato di non essere sicuro di riuscire a continuare, soprattutto lì. Ed effettivamente, portato a termine il mandato coi Reds, nel ’91 lasciò la città e iniziò una serie di altre esperienze manageriali in giro per la Gran Bretagna che interruppe nel 2000, anno dopo il quale non frequentò più gli stadi dell’isola per quasi un decennio preferendo dedicarsi a sé e alla moglie, ai tempi malata. Al Liverpool rientrò solo nel 2009, quando accettò un incarico legato alle giovanili per poi tornare a sedersi sulla panchina della prima squadra a gennaio 2011. E’ chiaro che tutto questo ha potuto farlo solo una volta smaltite le tossine che avrebbero avvelenato chiunque avesse vissuto esperienze come le sue – quella di Sheffield, a proposito, segnò terribilmente anche il club, al punto che nel suo logo vennero aggiunte due fiaccole a imperitura memoria di quanto accaduto.
Ad oggi, la sua carriera copre più di quarant’anni di calcio britannico e mondiale equamente divisi fra giocato e diretto – tenendo conto che per un certo periodo le due esperienze si sono accavallate e che c’è un buco di dieci anni nella sua esperienza da allenatore. Dopo gli esordi nel 1967-68 col Celtic, con cui giocò fra riserve e prima squadra per 9 stagioni, nel ’77 passò al Liverpool per le successive 13. Attaccate definitivamente le scarpe al chiodo nel ’90, quando già da qualche anno ricopriva il ruolo tipicamente britannico di player-manager dividendosi fra campo e panchina, passò al Blackburn per un lustro, poi andò al Newcastle e infine fece ritorno al Celtic, dove nel 2000 si fermò. Quindi, dieci anni dopo, vale a dire a metà della scorsa stagione, il grande rientro: licenziato Hodgson, rieccolo sulla panchina del Liverpool per l’entusiasmo incontenibile dei tifosi tornati ad acclamare il loro re: King Kenny, come lo chiamano.
Ripercorrendo la carriera di Dalglish si possono individuare molti elementi umani che la rendono ancor più sorprendente di quanto si possa evincere dai numeri. In quanto a questi, sono talmente clamorosi che conviene suddividerli a seconda dei periodi.
Da giocatore professionista vinse 6 campionati scozzesi e 5 inglesi, 5 Coppe di Scozia, 3 Coppe di Lega scozzesi e 4 inglesi e 4 Charity Shield vale a dire, grosso modo, l’equivalente della nostra Supercoppa se non fosse che lì la si gioca con varie formule dal 1898 e non dal 1988... Ma anche, e soprattutto, 3 Coppe dei Campioni e una Supercoppa europea. Da player manager 3 campionati inglesi, 2 Coppe d’Inghilterra e 3 Charity Shield. Da manager, quindi, 1 campionato inglese col Blackburn e 1 Coppa di Lega scozzese. Nel complesso, 26 trofei in 15 anni da giocatore, 9 in 5 anni da player manager e 2 in 10 anni da manager.
Non tragga in inganno l’esiguo numero di trofei conquistati da tecnico. Il campionato inglese vinto alla guida del Blackburn nel ‘95 fu e resta un evento epocale: il club non vinceva addirittura dal 1914 e quella Premer League rimane l’unica mai vinta nei 19 anni di sua esistenza da una squadra che non faccia parte delle Big Four. Col Newcastle, poi, nel ‘97 sfiorò un’altra impresa: subentrato al dimissionario Kevin Keegan, riuscì ad arrivare secondo per soli 7 punti dietro al Manchester United; è questo il migliore risultato negli ultimi 84 anni dei bianconeri, che continuano a non vincere il campionato dal 1927.
Con la maglia della Scozia, per tornare ai numeri, nel corso di quindici anni, dal 1971 al 1986, giocò 102 partite segnando 30 gol (entrambi record, il secondo dei quali condiviso con l’ex granata Denis Law) e partecipò a ben quattro edizioni dei Mondiali: Germania ’74, Argentina ’78, Spagna ’82 e Messico ’86.
La ricordata umanità di Dalglish può forse dipendere anche da un episodio tutt’altro che marginale che ha segnato proprio i suoi esordi, dandogli una serenità fuori del comune. Scozzese di Glasgow e tifoso dichiarato dei Rangers, iniziò però a giocare seriamente col Celtic. Non tutti, specialmente a quei tempi, avrebbero retto. Ed è significativo come nemmeno la sua fede Blue gli abbia impedito di divenire un idolo quasi assoluto dei Bhoys: solo un’esigua parte della tifoseria, infatti, gli riservò dei fischi, e non per il suo tifo giovanile bensì per via del successivo trasferimento in Inghilterra. Fondamentale anche la sua formazione, con l’inclusione benché graduale nel gruppo che aveva vinto la Coppa dei Campioni nel ’67, anno che fra l’altro è lo stesso in cui fu prelevato dalla piccola squadra del Dalmarnock: giocare al fianco, fra gli altri, di autentiche leggende come il capitano Billy McNeill e Bobby Lennox, sotto la guida tecnica di Jock Stein, ha chiaramente lasciato il segno.
Ma i maestri incontrati – e da cui apprendere – non finiscono qui. In Inghilterra giocò subito sotto Bob Paisley, che aveva appena guidato il Liveropool a vincere la sua prima Coppa dei Campioni e che a lui pensò di affidare il ruolo che fino a qualche mese prima era stato niente meno che di Kevin Keegan (a cui come ricordato Dalglish sarebbe succeduto anche sulla panchina del Newcastle), nel frattempo trasferitosi all’Amburgo contro cui avrebbe presto segnato in occasione della vittoria in Supercoppa europea. Poi fu la volta di Joe Fagan, altro manager che sollevò la Coppa dei Campioni per i Reds (dopo le tre di Paisley) a cui subentrò a metà ’85 benché dividendosi fra panchina e campo di gioco.
Il segreto della sua longevità sta anche nella gestione atletica delle ultime stagioni trascorse ad Anfield, che coincisero coi suoi 34-39 anni. A beneficiarne di certo pure le statistiche inerenti i gol, che nel complesso sono arrivati a essere 336 in 823 partite. Di fatto giocò con una certa continuità solo fino al 1986-87, stagione in cui segnò anche la sua ultima rete, ma la sua ultima presenza con la maglia addosso risale comunque al 5 maggio 1990.
Per tornare a quella che fra le tante imprese riuscitegli a molti potrebbe apparire la più clamorosa, cioè quanto fatto col Celtic nonostante fosse tifosissimo dei Rangers, va ricordato anche che il suo primo gol ufficiale con la maglia biancoverde lo segnò proprio ai suoi Rangers in Coppa di Lega, anno 1971. Lungi dal considerare la sua militanza nel Celtic un’indicazione negativa, dati i presupposti, credo anzi che in essa si debba ravvisare il giusto e immediato approccio di un ragazzo poi divenuto un grandissimo professionista. Una persona di fronte alla cui umanità, che torno apposta a nominare, dovrebbe sgretolarsi qualsiasi attacco dettato da un becero tifo avverso. D’altra parte è una gioia vederlo ancora agitarsi a bordo campo, reagendo platealmente a ogni azione ma senza mai perdere il sorriso, libero di essere se stesso ed evidentemente consapevole di godere di questa fortuna – che ha saputo costruirsi e quindi si merita. Riuscisse anche a fare rivincere il titolo al Liverpool a più di vent’anni dall’ultimo, che era stato proprio lui a regalargli, o una coppa qualsiasi, che sarebbe il primo trofeo nelle ultime sei stagioni, la sua meravigliosa carriera somiglierebbe ancora di più a una favola. E da re diverrebbe mago.
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