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Internazionalità

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di Andrea Ciprandi
Redazione Toro News

La recente affermazione dell’Internacional di Porto Alegre in Coppa Libertadores mi ha fatto pensare alle squadre accomunate dall’essere state fondate col preciso intento di riunire giocatori di ogni provenienza. Senza che avessero per forza un respiro internazionale, molti Club sono nati per reazione alla politica di altri che facevano dell’esclusività e della chiusura un punto d’onore imprescindibile oltre che un vero marchio di fabbrica. Nel corso dei decenni e a partire già dalla fine del XIX secolo, che dipendesse dalla considerazione o meno data a calciatori e dirigenti di un’altra città, nazionalità, confessione religiosa o colore della pelle, nel mondo del pallone si sono creati veri e propri schieramenti ideologici. Curioso come in alcuni casi ad essere considerata rivoluzionaria e per certi aspetti positiva sia invece stata la chiusura, ma è facile intuire che fosse il caso di Club che davano finalmente spazio alla gente del posto invece che solo agli stranieri che lavoravano nel loro Paese dettando nuove regole nello sport oltre che nella vita economica e sociale. E’ il Sud America il continente in cui questo è avvenuto principalmente, e i tempi sono quelli pionieristici in cui inglesi e altri europei iniziarono a modernizzarlo. Penso innanzitutto al Nacional di Montevideo, che come si evince dalla denominazione volle dare spazio agli uruguaiani mentre nel Central Uruguay Railway Cricket Club, il futuro Peñarol, giocavano principalmente stranieri. Più precisamente quei lavoratori britannici appartenenti alla classe media che in Patria venivano snobbati dall’aristocrazia che si dedicava allo sport come a un hobby; nei nuovi territori, dimentichi dei diritti reclamati per sé a casa, cercavano riscatto riservando ai nativi del posto lo stesso trattamento subito di là dall’Atlantico. Ecco allora che, come detto, a molti creoli sembrò indispensabile chiudersi per differenziarsi e contraddistinguersi, iniziative in cui non solo loro ravvisarono una vittoria democratica. Soprattutto agli albori del calcio, in ogni Paese c’era una netta differenziazione fra i sostenitori e i protagonisti di alcuni particolari Club. Se Celtic e Rangers sono stati divisi da religione e politica, nella penisola iberica alcune squadre catalane ma soprattutto basche non hanno praticamente mai fatto un’eccezione alla regola per cui a giocarci sarebbero stati esclusivamente calciatori del luogo: l’Athletic Bilbao ne è l’esempio perfetto. In Portogallo e in particolare a Lisbona, invece, era l’estrazione sociale la discriminante e così lo Sporting era sostenuto dall’artistocrazia mentre il Benfica dal popolo. Ecco, non desiderando perdermi in un elenco di casi analoghi che risulterebbe lunghissimo, dispersivo e alla fine nient’altro che curioso, prendo spunto da queste due squadre lusitane per accennare ai casi simili di alcuni Club brasiliani che dell’apertura, sociale o internazionale che fosse, hanno fatto una bandiera. Mi riferisco a Flamengo e Internacional.A dire il vero, sulla popolarità del Flamengo di Rio de Janeiro c’è da fare una precisazione, ma è indubbio che pur andando oltre le intenzioni dei soci questo Club sia diventato il più seguito dai brasiliani di ogni classe sociale. Similarmente a molte altre, è una polisportiva che venne fondata come Canottieri. Un circolo esclusivo, quindi, e accessibile solo ai signori benestanti dell’epoca e ai loro rampolli. Ma che l’esclusività del Flamengo non coincidesse a una chiusura totale nei confronti della società lo si evince da quanto segue. Molto più classista era il Fluminense, la cui mascotte è indicativamente un uomo in frac; lo era al punto che quando aprì al nuovo sport, il calcio, costrinse i propri stessi giocatori ad accedere alla struttura da una porta laterale. E detti giocatori, particolare non da poco, erano solo ed esclusivamente bianchi. A un tratto, dissidi interni portarono una decina di soci del Fluminense ad andarsene e ad accasarsi al Flamengo, ove vincendo l’iniziale diffidenza dei raffinati cultori del remo aprirono una sezione calcistica. Dato che ovviamente lì non esisteva un terreno di gioco iniziarono ad allenarsi su una spiaggia pubblica, ed è proprio da qui che viene la popolarità dei rossoneri, perché le loro sgambate infrasettimanali potevano essere viste anche da chi non era socio. C’è però da dire che se non fosse stato per il classismo e il razzismo esasperato del Fluminense, a dire il vero nemmeno troppo insoliti nella società di allora, una contrapposizione almeno apparentemente così netta rispetto all’aristocrazia non sarebbe stata ricondotta al Club di Gavea. A onor del vero, però, di lì a pochi anni, dopo che nel 1911 il Flamengo abbracciò il calcio e nel 1912 si giocò il primo Fla-Flu della storia, anche il Tricolor carioca dovette piegarsi all’inserimento di giocatori di razze diverse, benché solo per uscire da una crisi di risultati. Provvedimento che mi ricorda qualcosa di analogo nelle Nazionali italiane degli anni Trenta e di oggi, ove alla razza si sostituiscano le origini. Lo dico certo di non essere frainteso. Ad ogni modo sembrava che gli altezzosi soci del Fluminense non avrebbero mai potuto sopportare quest’onta ed è rimasto famoso il caso di Carlos Alberto, un mulatto che non sarebbe stato ammesso in squadra nonostante la sua bravura. Era il 1914 e per nascondere il colore della propria pelle scese in campo col viso cosparso di polvere di riso (in portoghese pó-de-arroz, che è poi divenuto uno dei soprannomi del Club). Sudando, il trucco gli colò e venne scoperto, ma si decise che uno strappo alla regola si sarebbe potuto fare: fu anche grazie alle sue prodezze, infatti, che il Fluminense tornò a vincere e se i soci non si fossero ammorbiditi la squadra sarebbe andata in rovina. Benché forzato, però, nemmeno questo clamoroso dietro-front servì a riabilitare l’immagine del Flu tra gli avversari perché, si sa, nell’immaginario popolare certi episodi rimangono impressi per sempre. E così lo strappo del Flamengo e i suoi allenamenti tenuti facendo di necessità virtù in mezzo alla gente, che col passare del tempo si appropriò della squadra piuttosto che esserne volutamente coinvolta, continuano a essere visti come un inno alla democrazia.Ben più significativa è la fondazione dell’Internacional. Due fratelli originari di San Paolo stavano inutilmente cercando di inserirsi negli ambienti calcistici di Porto Alegre. A comandare, lì, era la comunità tedesca, il cui Club era il Gremio. Curiosamente anch’esso un Tricolor, come il Fluminense. Fatto sta che i nuovi arrivati non si persero d’animo e al settarismo locale risposero con l’organizzazione di una nuova Società che portava i colori ma soprattutto il nome di quella lasciata a San Paolo, l’Internacional, a sottolinearne l’apertura a tutti, di qualsiasi classe sociale e provenienza fosse. In quanto al colore della pelle, in verità, i neri vennero ammessi solo una decina di anni dopo, a testimonianza di un certo elitarismo trasversale nei Club di allora. Comunque alla fine davvero tutti poterono giocarci e prima che lo stesso si verificasse anche nel Gremio si sarebbe dovuto aspettare parecchio. Ancora oggi, quindi, i simboli di queste due Società rivali puntano sulla caratterizzazione esistente fin dalle origini. In particolare la mascotte degli attuali campioni del Sud America, Saci, che è un popolare indigeno dotato di poteri magici e molto agile nonostante abbia una gamba sola, è visto dai supposti membri agiati del Gremio come un imbroglione maleodorante che spesso li deruba. Ma al pari del ‘bosteros’ che si prendono quelli del Boca, assimilati ai mefitici escrementi delle mucche, del ‘gallinas’ quelli del River Plate, definiti pavidi, del ‘manya’ quelli del Peñarol, irrimediabilmente squattrinati, del ‘lilliverpool’ chi è di Liverpool e tifa l’omonima squadra, dipinto denutrito e conseguente minuto come alcuni personaggi de ‘I viaggi di Gulliver’, del ‘porco’ chi è legato al Palmeiras, inviso a tutto il Brasile, e chi più ne ha più ne metta, all’Internacional non interessa niente degli sfottò, anzi ne hanno fatto un motivo di identificazione e vanto. E di quell’essere contraddittorio e soprattutto del carattere disgraziato che i rivali gli hanno attribuito vanno fieri.Scrivendo, riflettevo che in fondo l’apertura e via via che passava il tempo l’internazionalizzazione di molti i Club, anche quelli normalmente portati a esempio, sono state graduali. Ma anche funzionali al successo. Si pensi anche ai Rangers, arrivati ad avere con Amoruso il primo capitano cattolico ma anche straniero, come ha ricordato ultimamente un lettore. A mio modo di vedere, non che i risultati non contino e che per ottenerli non si possano raggiungere dei compromessi, ma parecchi miti, purtroppo, sembra che si debbano riconsiderare… A dicembre ad Abu Dhabi due Inter, la brasiliana e l’italiana, potrebbero finire per giocarsi il titolo mondiale. Entrambi i Club proclamano di essere stati fondati sull’onda di uno spirito nobile ravvisabile nel nome che portano. Ultimamente i profitti hanno letteralmente soffocato ogni proposito gentile e la globalizzazione vale solo perché favorevole dal punto di vista affaristico e finanziario. Il fenomeno coinvolge tutti. Ma quando Internazionale compare addirittura nel nome sarebbe il caso di fermarsi e porsi alcune domande su certi meccanismi del nostro amato calcio. Da cent'anni a questa parte, sia ben inteso. Ma ripensare anche a quelle squadre che si sono invece perse fra le pieghe della storia, i cui principii magari ci mancano. Come l'Internazionale Torino.