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Kubala, il Torino e il Barcelona

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Dopo un breve periodo di attesa, dovuto ad alcuni impegni sportivi che mi hanno costretto lontano dalla tastiera e più vicino ai campi da gioco, ritorna l'appuntamento con l'Appartamento...
Stefano Rosso

Dopo un breve periodo di attesa, dovuto ad alcuni che mi hanno costretto lontano dalla tastiera e , ritorna l'appuntamento con l'Appartamento Spagnolo. parlando dei derby, questa volta ci si occuperà di incroci particolari che hanno visto protagonisti il Torino ed il Barcelona, ma soprattutto un giocatore particolare che ha scritto pagine indelebili nella storia del club catalano e chissà cosa avrebbe potuto fare in maglia granata.

 

Qualche settimana fa, quando raccontavo le vicende di Valentino Mazzola a Roberto, un amico spagnolo, questi mi sorprese con un aneddoto molto particolare: “Grande Torino? Lo conosco: ci doveva andare a giocare Kubala, ma poi andò al Barcelona e si salvò dallo schianto dell’aereo”.

Kubala. Ladislao Kubala, uno dei calciatori simbolo della storia del Barça: attaccante ungherese degli anni ’50 è il terzo marcatore di sempre con 194 gol in maglia azulgrana - Messi lo ha superato circa un paio di anni fa - e la sua statua svetta all’ingresso della tribuna del Camp Nou. Negli anni ’50 in Catalunya ha vinto 4 scudetti, 5 coppe di Spagna, 2 coppe Eva Duarte, 1 coppa Latina e 2 coppe delle Fiere.

Stupito da quanto mi diceva l’ho lasciato continuare. “Pensa che il suo modo di giocare, talmente era forte, richiamava così tanta gente allo stadio - mi raccontava - che il Barcelona dovette costruire il Camp Nou perché lo stadio dove giocavano all’epoca, quello di Les Corts, era troppo piccolo”.

Kubala ebbe un passato molto travagliato, al quale il regista ungaro Tibor Kocsis sta dedicando un film, e scappato dal regime che si era instaurato in Ungheria nel dopoguerra trovò asilo in Italia, nella Pro Patria, dove militavano i suoi connazionali István Turbéky e Jenő Vinyei. A causa di una squalifica annuale impostagli dalla Fifa per la fuga dal suo paese Kubala fu impossibilitato a giocare partite ufficiali, ma questa limitazione non gli impedì di essere notato dai dirigenti granata.

Rimasi in ossequioso silenzio per ascoltarlo: “Nel 1949 il Grande Torino andò a Lisbona a giocare una partita, no? - mi domandò quasi retoricamente - Ecco, avevano invitato anche lui ad andare con loro in prova per poterlo tesserare”.

“Sì, era la gara dell’addio al calcio di Francisco Ferreira, molto amico di Valentino Mazzola - mi affrettai ad aggiungere - ma perché alla fine Kubala non partecipò?”.

La partenza per il Portogallo era pronta quanto il giocatore ungherese scoprì che sua moglie e suo figlio erano riusciti a scappare, arrivando in Italia. All’ultimo Kubala cambiò i propri piani per riabbracciare i propri familiari e, invece di salire sull’aereo, si recò a Udine.

“Il resto, poi, è storia risaputa - concluse distrattamente Roberto - si trasferì a Barcelona dove ottenne la cittadinanza spagnola e iniziò a giocare lì”. Dopo una breve pausa, proseguì: “Tra l’altro è stato l’unico calciatore al mondo a giocare in tre nazionali diverse, Ungheria, Cecoslovacchia e Spagna…”

Roberto continuava a parlare, però ormai non lo stavo più ascoltando. Il mio pensiero era rivolto a quella mezzapunta ungherese della quale avevo sentito parlare di sfuggita, a quel Ladislao Kubala che con la sua classe aveva incantato Barcelona e che avrebbe potuto fare altrettanto in maglia granata. Nel suo vagare con il Grande Torino, la mia mente subito materializzò un interrogativo, sempre il solito, che impreziosito dall’ultima scoperta, acquisisce ancora più valore: chissà cosa avrebbero fatto capitan Valentino e compagni se quell’aereo non fosse caduto.

Stefano Rosso

 

PS: provando a verificare la veridicità della storia ho trovato molte referenze, tutte in lingua spagnola, che raccontano la vicenda (tra cui il ). Tra le varie versioni c’è solo una discordanza in merito alle ragioni che allontanarono Kubala dall’aereo maledetto: c’è chi parla di mancato accordo economico, chi della necessità di stare accanto al figlio malato. Io ho preferito mantenere la versione originale della conversazione, che tra tutte mi è parsa anche più poetica.