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La storia di Irina

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di Walter Panero Quando pubblicai per la prima volta questa storia, nel dicembre del 2009, molti (e tra essi anche alcuni "fratelli di virus" romeni) mi scrissero per chiedermi se la protagonista esistesse davvero oppure fosse solamente...
Redazione Toro News

di Walter Panero

 

Quando pubblicai per la prima volta questa storia, nel dicembre del 2009, molti (e tra essi anche alcuni "fratelli di virus" romeni) mi scrissero per chiedermi se la protagonista esistesse davvero oppure fosse solamente frutto della mia fantasia. Posso rispondere che , in ogni racconto, quasi sempre fantasia e realtà si intrecciano in una matassa che è poi difficile da sciogliere.Forse Irina, così come l'avevo raccontata, non esiste in quanto tale. Ma quante “Irine” ci sono a Torino? E quante, senza che magari ce ne accorgiamo, si siedono abitualmente al nostro fianco allo stadio quando siamo troppo presi dalla sofferenza per il nostro Toro per rendercene conto?Buona lettura a chi scopre per la prima volta questa storia. E anche a chi si prenderà un po' di tempo per rileggerla.

 

Mi chiamo Irina e sono nata in un piccolo paese della campagna transilvana ad una cinquantina di chilometri da Sibiu. Era il dicembre del 1967, l’anno in cui Nicoelae Ceausescu salì al potere in Romania.In famiglia eravamo in sei: oltre a mio padre Ilie che faceva il contadino, c’era mia madre Nadia che si occupava di noi ragazzi, ovvero due fratelli più grandi di me di cinque e tre anni, ed una sorella più giovane. Stavamo bene al paese. Vivevamo all’aria aperta e, soprattutto d’estate, potevamo stare fuori tutto il giorno a giocare nei prati. D’inverno, invece, faceva troppo freddo e ci divertivamo inventando in casa i giochi più diversi.Un giorno, dovevo avere poco più di sei anni perché avevo da poco iniziato la scuola, mio padre arrivò a casa e capii subito che era molto triste. Appresi, senza comprenderne il motivo, che avremmo dovuto lasciare presto il paese per trasferirci in una grande città dove lui aveva trovato lavoro in fabbrica.La grande città si chiamava Bucarest ed era nientemeno che la capitale del nostro paese. Ricordo solo il grigio del quartiere dove andammo ad abitare ed il nostro appartamento piccolo e triste. Mi mancava terribilmente la vita all’aria aperta della campagna. Mi mancavano i miei amici di allora. Mi sembrava di stare in prigione in quella casa ed in quella città.Io ed i miei fratelli andavamo a scuola mentre papà si ammazzava di lavoro. Ci diceva sempre che la scuola era fondamentale: grazie ad essa avremmo potuto trovare un lavoro importante, magari in qualche Ministero della capitale. Ciò ci avrebbe permesso di condurre una vita migliore di quella dei nostri genitori.Studiavo e crescevo. Cominciavo ad ambientarmi in quella che ormai era diventata la mia città. Mi piaceva, il sabato, uscire con le amiche a fare un giro in centro. Pensavo che nessuna città del mondo fosse bella come quella; d’altra parte non ne avevo mai conosciute altre: il mio mondo era Bucarest e, a parte qualche gita in campagna ogni tanto, non sapevo gran che di quello che accadeva al di fuori del mio paese. O meglio: sapevo quello che ci dicevano a scuola. Noi eravamo uno degli ultimi baluardi del mondo sano a fronte di quello occidentale ricco e corrotto. Nell’Europa occidentale dominava il capitale, mentre da noi le cose andavano diversamente: eravamo veramente liberi, perché da noi i lavoratori avevano vinto la loro battaglia sul capitalismo. Ed il merito era quasi tutto del nostro grande Conducator, uno degli uomini più intelligenti e grandi della storia dell’umanità. Non sapevo se fosse effettivamente così, ma non avevo neanche gli elementi per ritenere che tutto ciò non fosse vero.Quando iniziai ad andare all’Università, entrai in contatto con persone che la pensavano diversamente. Iniziai a frequentare un gruppo di ragazzi che dicevano che le cose non erano come ce le avevano sempre presentate. Sostenevano che in occidente i negozi erano sempre pieni, la gente, anche i semplici operai delle fabbriche, aveva la possibilità di comprarsi belle case e belle automobili. Dicevano inoltre che il sistema socialista era una grande presa in giro e che Ceausescu non era quel grande uomo che volevano farci credere, ma un individuo bieco e corrotto che si arricchiva alle spalle della povera gente. Anche se il potere faceva di tutto per evitare la diffusione di certe notizie, ci era giunta voce che qualcosa nel mondo stava cambiando. Si diceva che in Russia le cose non erano più come prima. Sapevamo che il Muro di Berlino era caduto e che i Tedeschi avevano nuovamente potuto abbracciarsi tra loro. Solo da noi sembrava non cambiasse mai niente. Ceausescu e sua moglie Elena sembravano inaffondabili. Invece, in quei giorni di dicembre del 1989, il pentolone che pareva silenzioso scoppiò all’improvviso. C’eravamo anche io ed i miei amici in piazza all’ultimo comizio del dittatore il 21 dicembre. Dopo la rivolta di Timisoara, avvenuta qualche giorno prima, lui si aspettava di riprendere il controllo della situazione con un semplice discorso. Le cose andarono diversamente. La folla, di solito ammaestrata ad applaudire qualsiasi cosa Ceausescu dicesse, quel giorno stette insolitamente zitta. Qualcuno cominciò a fischiare ed a rumoreggiare sventolando bandiere del nostro paese alle quali era stato tagliato via lo stemma comunista. Più il dittatore e sua moglie cercavano di calmare la folla, più la gente urlava: “Giù il dittatore!”, “Morte al criminale!”. Il comizio venne interrotto. I manifestanti invasero la città. Ceausescu e la moglie cercarono di scappare in elicottero verso Targoviste, ma furono intercettati e fermati. Tentarono ancora di fuggire in auto, ma vennero ancora arrestati dalla polizia e da questa consegnati all’esercito. Furono processati e giustiziati nel giorno di Natale di quel 1989.

Pensavamo che, con la morte del tiranno, le cose sarebbero finalmente cambiate. Pensavamo che il nostro potesse tornare ad essere un Paese normale e che le nostre condizioni economiche potessero finalmente migliorare. Invece cambiò poco o nulla. Nell’estate del 1991, terminai i miei studi laureandomi in lingue e mi misi a cercare lavoro. Dapprima come insegnante: niente. Poi in altri campi: niente. Un giorno, mentre leggevo gli annunci nella bacheca dell’Università, incontrai una mia vecchia amica. Sua sorella si era da poco trasferita in Italia dove aveva trovato un lavoro sicuro e anche un fidanzato bello e benestante. Conduceva una vita da gran signora e le aveva chiesto di raggiungerla dicendo che le avrebbe trovato di certo una sistemazione. Mi propose di unirmi a lei. Io un po’ di Italiano lo sapevo. Ero disoccupata. Perché non provarci? Perché non andare con lei? Quel poco che sapevo dell’Italia, lo avevo visto in televisione: si capiva che era un paese magnifico e soprattutto ricco, dove la gente viveva in case meravigliose piene di cose bellissime. Avevo visto immagini di Roma e di Firenze. Di Venezia e di Napoli. Non sapevo nulla, assolutamente nulla della città in cui sarei andata ad abitare e a cercare fortuna. Non sapevo assolutamente nulla di Torino.

 Dopo un lungo viaggio in pullman durato un paio di giorni, giunsi alla periferia della città in un giorno di metà aprile. Mi colpirono quei palazzoni tristi ed alti che non sembravano molto diversi da quelli della mia città. La gente lì dentro non doveva passarsela molto bene: cominciavo a capire che l’Italia non era esattamente quella che veniva rappresentata nella pubblicità. Torino era più grande di come me l’aspettassi. C’era moltissimo traffico. Tante automobili. Tanta gente per strada. Quasi tutti avevano una sciarpa, una maglia, una bandiera granata. Doveva esserci una partita.  Non avevo la minima idea di che partita fosse. Non è che seguissi molto il calcio, a quei tempi. Prima di partire, mio fratello mi aveva chiesto di comprargli una sciarpa della squadra locale, la Juventus. Mi aveva detto che era a strisce bianche e nere. Ma quella gente in strada era colorata. Non dovevano essere tifosi della squadra che conosceva mio fratello. Non c’era nulla di bianco e nero in loro. Mi portarono nel posto in cui avrei passato la notte. Una stanza buia ed angusta nel centro della città. Dormii davvero poco: quel posto non mi piaceva, avevo paura che qualcuno mi derubasse, e poi fuori non la smettevano di festeggiare. Era evidente che la squadra di calcio aveva vinto. Una vittoria importante, visto che stavano festeggiando tanto. Non sapevo neanche di che squadra si trattasse, ma ero contenta che la gente là fuori fosse felice. Mi ricordai di quella volta in cui, qualche anno prima, festeggiai per tutta la notte con i miei fratelli ed i loro amici la vittoria della Steaua in Coppa dei Campioni ai rigori contro il Barcellona.  Il giorno dopo seppi che il Torino, la squadra della città, aveva battuto il Real Madrid ed era approdato in finale di una coppa di cui non ricordavo il nome. In ogni caso una coppa importante. Sapevo poco di calcio, ma mio fratello mi aveva sempre detto che il Real Madrid era una delle squadre più forti del mondo. Decisamente ero arrivata a Torino in un giorno speciale.

I primi mesi in città furono molto duri. Non avevo un posto fisso. Campavo facendo qualche lavoretto qua e là. Vivevo vicino alla stazione di Porta Nuova in un minuscolo appartamento fatiscente con altre tre ragazze due delle quali, per mantenersi, avevano deciso di scegliere la strada più facile. Io quella strada non l’avrei seguita mai. Piuttosto me ne sarei tornata indietro. A fine anno decisi di rientrare in Romania per le Feste di Natale e di fermarmi definitivamente là, dove almeno non mi sarei sentita straniera. Avrei raccontato a tutti che l’Italia non era affatto come volevano farci credere. Che era un paese con tanti pregi ma anche con tanti problemi. Proprio come il nostro e come tanti altri paesi del mondo. Purtroppo l’Italia e Torino non avevano saputo darmi ciò che da loro mi aspettavo: un lavoro sicuro e ben pagato ed un briciolo di felicità.Qualche giorno prima di partire per non tornare più, sfogliando un giornale cittadino, lessi per caso un annuncio economico. Una famiglia che abitava in un quartiere della periferia a nord della città cercava una badante per un’anziana signora che, evidentemente, non era più in grado di stare da sola. Avevo fatto saltuariamente quel lavoro e così, senza molte speranze, decisi di provare a telefonare per rispondere all’annuncio. In fondo non avevo nulla da perdere: se le cose fossero andate male, se non mi avessero preso come era assai probabile, me ne sarei tornata in Romania e non sarei mai più venuta in Italia se non come turista.Telefonai. Mi proposero un colloquio per il giorno dopo. La signora abitava in un bell’appartamento all’ultimo piano di un condominio. In casa c’erano i due figli: uno aveva circa quarant’anni; l’altro, più giovane, doveva avere qualche anno più di me, ma non molti. Si vedeva che era brava gente. Mi dissero che la signora era rimasta vedova da un po’ e che, da qualche anno, il morbo di Parkinson le impediva di essere autosufficiente. Le sue condizioni erano ulteriormente peggiorate ed ora aveva bisogno di assistenza continua che loro non erano in grado di fornirle. Mi chiesero anche se sarei stata disposta a trasferirmi a casa della signora. Dissi loro che non avrei avuto problemi in quel senso, dato che non avevo famiglia e praticamente neppure una casa. Dopo una mezz’oretta di colloquio mi lasciarono andare, dicendomi che avevano sentito altre ragazze e che in un paio di giorni avrebbero preso una decisione su chi assumere. Si fecero lasciare il mio numero e dissero che mi avrebbero dato una risposta in ogni casoRisposta che sarebbe stata di sicuro negativa, pensavo: già il fatto che ci fossero altre ragazze in lizza mi escludeva di sicuro, visto che tra loro ce ne sarebbe stata certamente qualcuna più qualificata di me. Non avevo speranza. Il giorno dopo il telefono squillò. Mi sentii gelare il sangue: evidentemente, anche se non volevo ammetterlo per non illudermi, c’era una parte di me che ancora sperava di ottenere quel posto. Risposi. Era Marco, il più anziano dei due figli della signora. Mi disse che avevano deciso di assumere proprio me, perché tra tutte le ragazze che si erano presentate da loro ero sembrata la più seria e anche perché ero l’unica che non aveva opposto riserve quando mi avevano proposto di trasferirmi là. Il fatto di essere praticamente sola al mondo mi aveva aiutato a trovare un lavoro. Sarei rimasta in Italia, almeno fino a quando quel lavoro mi avesse permesso di viverci.

Era un lavoro duro. Maria, questo era il nome della signora che assistevo, peggiorava un pochino ogni giorno. Pur essendo mentalmente lucida, si muoveva con difficoltà in casa. Dovevo lavare, stirare, prepararle da mangiare, imboccarla e metterla a letto come se fosse una bambina. Che brutta storia essere in grado di ragionare e rendersi conto di diventare sempre più simili ad un vegetale. Ogni giorno peggio del giorno che lo precede. Senza la minima speranza di migliorare.Arrivavo a sera stravolta, ma il lavoro era davvero ben pagato. Avevo un giorno libero la settimana, in genere nel week end, quando a casa della signora arrivavano i figli. Marco, il più vecchio, veniva più spesso. Era sposato ed aveva due bambini maschi di otto e dieci anni che erano affezionatissimi alla nonna. Volevano che lei giocasse con loro come era solita fare fino a qualche anno prima. Ma Maria non ce la faceva più. E questo la rendeva molto triste.Paolo, il più giovane, veniva meno spesso a trovare la mamma: una volta, lei mi aveva detto che abitava fuori città. In genere passava il sabato o la domenica ed era sovente vestito in modo strano: aveva sempre una maglia e una sciarpa con i colori di quella squadra che aveva vinto quella famosa partita nel giorno in cui arrivai a Torino. La madre mi aveva spiegato che lui, pur vivendo lontano, veniva in città ogni volta che il Torino, lei diceva il Toro, giocava in casa. E in quelle occasioni passava sempre a trovarla. Il Toro era la grande passione di famiglia: la signora mi parlava spesso di quando era giovane, di una squadra imbattibile che solo la morte in un incidente aereo era riuscita a fermare. Come ho già detto, io non capivo molto di calcio, ma quei racconti mi interessavano molto. Anche perché si vedeva che, quando parlava del Toro e della sua giovinezza, gli occhi di Maria rifiorivano di luce. La stessa luce di cui si riempivano quando vedeva i nipotini e quando Paolo tornava a casa felice dicendo che la sua squadra aveva vinto. Io non comprendevo tanto quell’amore per il calcio, ma penso che nella vita sia importante avere delle passioni. Qualunque passione ci permette di vivere meglio. A me, per esempio, piace scrivere racconti e poesie. E quando lo faccio mi sento felice e soprattutto viva.

Paolo non era bello, ma in lui c’era qualcosa che mi piaceva. Penso fosse il suo sorriso che gli dava un’aria simpatica e sincera. Nei suoi occhi c’era la luce della vita e della passione. Avevo capito quasi subito che era un ragazzo intelligente. Sua madre mi aveva spiegato che si era laureato in lettere qualche anno prima, perché il suo desiderio era sempre stato quello di insegnare. Si vede che Torino era una città troppo piccola, perché per trovare un posto decente era stato costretto a spostarsi nella zona di Milano dove un liceo gli aveva offerto una cattedra. Non era uno che parlasse molto, ma avevo scoperto di avere molti interessi in comune con lui. Gli piaceva viaggiare ed aveva visitato un sacco di posti. Non era mai stato in Romania, ma diceva che gli sarebbe piaciuto prima o poi andare nel mio paese. Era curioso e mi chiedeva un sacco di cose sulla mia storia e su quella della Romania, soprattutto ai tempi della dittatura comunista. Amava la letteratura e conosceva anche alcuni scrittori di casa mia. Era diverso dagli altri uomini che avevo conosciuto fino a quel momento sia in Romania che in Italia; tutti individui che alle donne chiedono una cosa soltanto. Se solo mi avesse proposto di uscire una volta: sarei andata anche alla partita della sua squadra, se solo me lo avesse chiesto. Io cercavo di fargli capire che mi piaceva, ma lui sembrava non accorgersi di me. Forse era troppo timido. O forse, più semplicemente, non gli piacevo. Potevo anche capirlo, visto che lui era un ragazzo laureato e di buona famiglia, mentre io una povera “servetta” romena, sia pure laureata a mia volta.Fu Maria una volta a sorprendermi con una frase che mi mise un po’ in imbarazzo. E’ incredibile come gli anziani ed i bambini sappiano a volte spiazzarti con delle uscite allo stesso tempo ingenue e perspicaci. Le stavo preparando la cena quando mi guardò con i suoi occhi furbi dicendomi “sei proprio un’ottima cuoca! E sei anche brava ed intelligente. Saresti davvero la moglie ideale per il mio Paolo. Se solo lui fosse un po’ meno timido. Io lo so che gli piaci, me lo ha detto una volta che non c’eri. E da come lo guardi mi sa che anche lui piace a te. Se vuoi metto una buona parola: sarebbe un peccato che, per timidezza, non vi metteste insieme. Sareste proprio una bella coppia. Voglio degli altri nipoti prima di morire, io…”. Da come ero arrossita, lei ebbe la conferma del fatto che anche a me il suo Paolo piaceva. Se solo avesse avuto il coraggio di parlare. Se solo lo avessi avuto io…

Lo trovò lui una domenica sera in cui il suo Toro aveva vinto una partita importante contro l’altra squadra della città. Era davvero euforico e più allegro del solito. Forse aveva bevuto qualche bicchiere in più. Insomma ci mettemmo d’accordo per andare al cinema il venerdì sera successivo, visto che l’altro fratello sarebbe rimasto con Maria. Andammo a vedere Braveheart che racconta la storia di un eroe scozzese dal cuore impavido. Usciti dal cinema, ci recammo a bere qualcosa e parlammo tutta la sera del film, ma anche di tante altre cose. Delle nostre vite. Dei nostri progetti. Mi piaceva tanto stare con Paolo. Con lui il tempo trascorreva velocissimo. Avevamo sempre qualcosa da dirci e da confidarci. Sapevo che il giorno dopo si sarebbe recato alla partita e mi sarebbe tanto piaciuto andarci insieme con lui. Stavolta decisi di fare io il primo passo chiedendogli se potevo unirmi a lui ed ai suoi amici. Arrossendo con un sorriso un po’ imbarazzato mi disse che avrei potuto. Era la prima volta in vita mia che entravo in uno stadio. Ricordo i colori. Ricordo il boato con cui la gente accolse i nomi dei giocatori urlati dall’altoparlante. Ricordo gli applausi e la coreografia all’ingresso in campo delle squadre. L’avversario quel giorno era la Sampdoria che, mi aveva detto Paolo, era una delle due squadre di Genova. Paolo cercava di spiegarmi le regole e le azioni di quello sport che conoscevo appena. Mi parlava dei giocatori in campo. Mi raccontava la storia della sua squadra, cercando di farmi capire che cosa la rendesse per lui così speciale. Mi sforzavo di comprendere, magari prima o poi ci sarei riuscita. Ma, anche se la partita finì 0 a 0 e la maggior parte della gente scuoteva la testa insoddisfatta, a me era piaciuta quella bell’atmosfera di festa. Avrei voluto tornarci magari con Paolo. Chissà. Dopo la partita, decidemmo di andare a farci un giro al Valentino. Era il sabato di Pasqua e non c’era molta gente in giro: Paolo mi spiegò che, in quei giorni di primavera, molti dei suoi concittadini avevano lasciato Torino per raggiungere i luoghi di villeggiatura al mare o in montagna. Lui stesso, il giorno dopo, se ne sarebbe andato in montagna nel piccolo paese dove era cresciuto suo padre. A me sarebbe piaciuto molto andare con lui, ma dovevo stare con la signora Maria. Chissà: magari un giorno….Camminavamo e parlavamo tanto Paolo ed io. Ridevamo. Scherzavamo come due vecchi amici. Eravamo lungo il grande fiume. Eravamo felici. All’improvviso, Paolo si fermò in un punto. Il suo viso aveva assunto un colorito rosso fuoco. Mi guardò negli occhi. Mi accarezzò la mano destra e la prese nella sua. Mi tirò verso di lui e avvicinò il suo viso al mio. Con le sue labbra sfiorò dolcemente le mie. Ci sciogliemmo in un bacio appassionato.

Paolo ed io ci siamo sposati in una piccola chiesa di montagna tre anni dopo quel bacio. Abbiamo due figli: un maschio di otto anni che si chiama Ilie come mio padre. Ed una bambina di sei alla quale naturalmente abbiamo messo il nome della nonna Maria, che è mancata qualche mese dopo la sua nascita. Sono felice. Siamo felici. Una volta l’anno torniamo in Romania per qualche giorno di vacanza e perché voglio che i miei bimbi conoscano il paese della loro madre, anche se ora tutto è molto diverso da quando avevo la loro età. Ogni due domeniche, poi, andiamo tutti insieme allo stadio a vedere il Toro. Ogni volta che sono là, ripenso a quel Toro-Sampdoria di tanti anni fa. Ripenso soprattutto al giorno in cui arrivai a Torino. Alla gente che faceva festa per le strade per quella grande vittoria sul Real Madrid. E spero un giorno di poter festeggiare anche io come loro. Spero soprattutto che lo possano fare i miei figli. Allora non sapevo nulla del Toro. Ora ho capito molto. Adesso anche io so cosa significa, nel bene e nel male, essere tifosi del Toro!