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Le due anime dell’Uruguay

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di Andrea Ciprandi
Redazione Toro News

L'entusiasmante cavalcata dell'Uruguay ai Mondiali del Sud Africa ha riacceso l'interesse di molti appassionati di calcio per questo Paese lontano e calcisticamente glorioso. Un luogo che ha oltretutto molti legami con l'Italia, a partire dal ruolo di Garibaldi nel corso della Guerra d'Indipendenza di metà XIX secolo, passando per la massiccia emigrazione (gran parte della quale proprio dal Piemonte), per finire ai tanti oriundi che vestirono anche la maglia azzurra e ai giocatori che militano o hanno militato nei nostri campionati.Basterebbe partire da alcuni termini ultimamente ascoltati magari per la prima volta da tanta gente per ripercorrere un po’ della storia di questo evocativo Paese. Celeste è chiamata la Nazionale, dal colore della maglia adottata in onore del primo Club uruguaiano che riuscì a batterne uno argentino, a testimonianza della rivalità esistente coi confinanti; ‘charrùa’ è il diminutivo di chi viene da lì e di conseguenza anche dei calciatori ma altro non è che il nome delle popolazioni indigene spazzate via dal primo tentativo di colonizzazione spagnolo, risalente al XVI secolo. E vedremo come proprio la storia tormentata di questa terra, contesa negli ultimi cinquecento anni da spagnoli, inglesi, francesi e portoghesi nonché argentini e brasiliani, è alla base della più netta e nota distinzione calcistica che divide la gran parte di quei quasi 180.000 kilometri quadri (pari a niente più che il Nord Italia) e dei 3 milioni e mezzo scarsi di persone (quanto fa Milano e provincia) che tanto hanno dato alla storia del calcio mondiale. Peñarol e Nacional, in rigoroso ordine di fondazione, non sono le sole anime calcistiche dell’Uruguay ma di certo ben ne rappresentano il carattere. Senza cadere nell’errore per cui spesso si limitano la Scozia a Rangers e Celtic e il Portogallo a Benfica, Sporting e Porto, non v’è dubbio però che per esempio Danubio, Liverpool, Defensor, Wanderers e Paysandù abbiano inciso sulla storia sportiva di questo Paese più per il sentimento originale e degno quanto qualsiasi altro di chi le tifa che per altro. E’ infatti soprattutto nei caratteri diametralmente opposti ma ugualmente significativi dei maggiori Club di Montevideo che si possono ritrovare le due anime uruguaiane. Da un lato quella dipendente dagli influssi stranieri, grazie ai quali il Paese ha ritrovato energia a più riprese e in particolar modo negli ultimi due secoli; dall’altro quella diffidente nei confronti dei pur tanti e valenti immigrati, quella che un centinaio di anni fa ha voluto rivendicare un’autenticità che in Sud America non aveva ancora trovato spazio. Dalla prima nacque il Peñarol, dalla seconda sorse il Nacional.La maglia del Peñarol è giallonera (in realtà aurinegra, oronera) come le insegne fatte posare dalle Aziende ferroviarie inglesi lungo le nuove vie di comunicazione che costruirono in Uruguay e nell’intero Sud America. Era inglese il Central Uruguay Railway Cricket Club fondato nel 1891 e che solo nel 1913 assunse l’attuale denominazione, anche in ragione della presenza tra i soci di italiani originari di Pinerolo. E’ evidente il carattere aperto di chi vi si affiliò, incapace di separare il presente e il futuro anche sportivo del Paese dalle sue radici cosmopolite, troppo evidenti per essere improvvisamente rinnegate. Si sa che tra i tifosi il disprezzo altrui rafforza, al punto che originari insulti finiscono per diventare punti d’orgoglio. E così tutti coloro che hanno a che fare con questa squadra sono denominati Carboneros e Manya; trasposizione grafica abbreviata, quest’ultima, dell’espressione ‘mangiamerda’ pronunciata da un calciatore di origine italiana che sul punto di trasferirsi a questo Club volle sottolinearne le limitatissime possibilità economiche del suo tempo. Fatto sta che pur coi suoi alti e bassi il Peñarol è stato recentemente eletto Club sudamericano più vincente del XX secolo, forte delle sue 5 Coppe Libertadores e 3 Intercontinentali nonché di 48 titoli nazionali. Tra le sue fila hanno giocato campioni come Schiaffino e Ghiggia (poi naturalizzati italiani) e Varela, che ci riportano automaticamente alla storica vittoria uruguaiana dei Mondiali del 1950, in Brasile, e in particolare al cosiddetto Maracanazo, cioè il 2-1 in rimonta nella sfida decisiva coi padroni di casa. Venendo a tempi più recenti, Francescoli alias el Enzo o el Principe, che passò anche per il Torino al pari del molto meno talentuoso Franco, e poi Montero, Dario Silva, Pacheco, Zalayeta, Olivera e il miglior giocatore degli ultimi Mondiali, Forlan. Già dalla sua denominazione completa, vale a dire Club Nacional de Football, si capisce invece come i bianchi (blancos) di Montevideo, il Nacional, affondino le loro radici in un forte sentimento nazionalista. Fondato nel 1899 anche grazie all’apporto di giocatori staccatosi da Club gestiti da stranieri, si tratta del primo Club creolo di tutto il Sud America e non è un caso che il colore delle sue prime maglie fosse il rosso, in omaggio a quello dell’eroe nazionale Artigas che a inizio ‘800 aveva ricacciato l’ennesima offensiva spagnola. L’evoluzione dei colori, col passare del tempo, portò alla sostituzione del rosso col bianco, ma nella sostanza bianco rosso e blu continuano a contraddistinguere questo Club, facendone uno dei tanti Tricolor del Sud America (si pensi anche a San Paolo e Fluminense) benché l’originaria presenza di un taschino cucito sul petto ove oggi campeggia lo scudo l’abbia fatto conoscere innanzitutto come Bolso. Di Coppe Libertadores ne ha vinte tre, altrettante sono le Intercontinentali e 42 i campionati nazionali conquistati. Titoli a parte, questa Società rivendica un certo carattere aristocratico che lo legherebbe a River Plate e Olimpia in contrapposizione al Peñarol, i cui tifosi vengono ritenuti di estrazione più umile e quindi più simili a quelli di Boca Juniors e Cerro Porteño, ma anche per esperienza personale mi sento di affermare che sostenere questa tesi equivarrebbe a dare, ancora oggi, dei ‘casciavit’ ai milanisti e dei ‘bauscia’ agli interisti. Giudicate voi. Lugano, che uscì dal suo vivaio, Saralegui, dai trascorsi granata, Victorino, Ruben Sosa, Recoba e Muslera che vi passarono sono nomi collegabili al Nacional più facilmente di altri. Hugo de Leon, però, resta un loro capitano indimenticabile, imprescindibile al che se ne ripercorra la storia.

Per concludere questa velocissima panoramica, entrambi i Club giocano le partite più importanti allo stadio Centenario di Montevideo, monumento nazionale e scenario della prima Finale mondiale di sempre. Le sue due curve, la Colombes e la Amsterdam, tradizionalmente occupate rispettivamente dai tifosi blancos e aurinegros, ricordano le affermazioni olimpiche dalla Nazionale di calcio negli Anni Venti, cui la Federezione Uruguaiana tiene al punto da rappresentarle sulla maglia della Celeste con due stelle che si aggiungono a quelle dei Mondiali ottenuti nel ’30 e nel ’50. Il Nacional disputa però molti incontri al Gran Parque Central, un gioiellino che, con un occhio alle vicende di casa nostra e a maggior ragione in un periodo in cui si parla tanto di impianti privati, non può non far pensare a quanto gioverebbe la ricostruzione del Filadelfia.