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Pensieri in Libertà

Redazione Toro News
di Walter Panero

Tra Cornigliano e Sestri Ponente, una domenica di gennaio del 1948. Sera.

 

Se becco quello che dice che qui a Genova d'inverno non fa freddo e c'è sempre un clima mite, lo porto qui di peso, lo imbelino (1) su questa bici, e lo costringo a proseguire lungo la strada un po' dissestata che sto facendo io, finché il vento non gli avrà completamente congelato le mani e la faccia. Vento bastardo che arriva da chissà dove, e si infila ovunque congelandomi le ossa.

Mi prendevano sempre in giro i compagni mandrogni (2) della Brigata Cichèro, quando, qualche anno fa, combattevamo per la libertà su quelle montagne che si vedono là in fondo: “Ah....voi Liguri non sapete cosa sia il freddo; mica come noi Piemontesi che iniziamo a mangiare nebbia e ghiaccio al principio di novembre e la piantiamo a marzo, e che quando seminiamo dobbiamo rompere la terra resa dura dal gelo; voi avete sempre il sole e non conoscete la nebbia infingarda; voi avete il mare che vi riscalda le ossa d'inverno; voi avete la brezza leggera che vi rinfresca d'estate, mentre da noi il sole e l'afa ci cuociono la pelle per regalarla in pasto alle zanzare fameliche e maledette; voi non dovete rompervi la schiena in campagna, perché avete le vostre fabbriche che vi danno da mangiare e vi fanno stare al riparo, e anche se viene la grandine un lavoro e un tetto sulla testa l'avete lo stesso...”.

Già. Le nostre fabbriche. Quelle parzialmente distrutte da una guerra infame e vergognosa. Dagli Inglesi che a scuola ci avevano insegnato ad odiare: sarà anche stata la Perfida Albione, ma in questo caso avevano ragione da vendere. “Vinceremo!” aveva urlato quel maiale pelato che ha mandato un'intera generazione a crepare sul fronte. Nel deserto di El Alamein. Nel gelo della steppa Russa. Siamo partiti in migliaia, e siamo tornati in una manciata. Io, per esempio, sono stato fortunato perché appena col treno sono arrivato nei pressi del fronte russo insieme ad un migliaio di commilitoni quasi tutti delle montagne del Cunese, è arrivato l'ordine della ritirata perché il nostro fronte si stava sfaldando. Così si può dire che io il fronte Russo l'ho visto solo di striscio. Ce ne siamo tornati a casa, chi su mezzi di fortuna chi, come me, a piedi. Si camminava di notte e ci si nascondeva di giorno, per giorni, per settimane. Con la stanchezza che aumentava e con la perenne ansia che qualcuno, russo o crucco, ci beccasse e ci facesse fuori in un istante. Ma io riuscii a portare a casa la ghirba (3), e a tornarmene da mia madre e da mio padre, che aveva perso due fratelli in quell'altra strage enorme ed insensata che tutti conoscono come Grande Guerra. Partiti pieni di speranze, infilati in una qualche trincea di montagna a combattere contro un nemico invisibile, fulminati da una fucilata o da una palla di cannone, mai più ritrovati e forse sepolti sotto la neve. Bella roba la guerra, proprio una bella roba!

“La guerra è finita!” urlarono i quotidiani un giorno di settembre di qualche anno fa. Ma che finita? Per noi la vera guerra doveva ancora iniziare. E' stato in quel momento che, io ed alcuni amici che avevano più o meno la mia età, abbiamo fatto LA SCELTA. Forse la prima vera scelta consapevole della mia vita: combattere sì, ma non contro un nemico di cui non si sapeva nulla come era accaduto a me e ai miei zii prima di me. Combattere contro chi aveva rovinato l'Italia e stava distruggendo l'Europa. Combattere per la liberare la nostra città ed il nostro Paese. Combattere per dare a noi stessi ed alle generazioni a venire un futuro migliore. Combattere, rischiare di morire ogni giorno, ma non per qualche re o per qualche dittatore del piffero, ma per un ideale di libertà.

Quella stessa libertà che riconquistammo scendendo dai monti e liberando la città in quel giorno di aprile. Che festa, che gioia immensa ed indimenticabile! Che commozione!Quella stessa libertà che venne consacrata quando tornammo a votare un anno e mezzo fa, dopo anni che le votazioni non sapevamo neppure cosa fossero, se non fosse stato per i racconti dei nostri antenati. Tempi di grandi conquiste. Tempi di grandi sogni. Tempi di grandi speranze.

Sogni e speranze. In parte realizzati ed in parte vanificati. Credevamo che le cose cambiassero veramente una volta per tutte. Che i padroni di un tempo, gli stessi che avevano sostenuto il regime ed appoggiato la guerra, sarebbero stati cacciati via come il Duce e come il Re. E invece niente. Rieccoli lì, una manciata d'anni dopo. Gli stessi di prima, o i loro figli magari. Ma con gli stessi metodi. Con lo stesso piglio. Con le stesse pretese. Con la stessa arroganza di allora.Tutto era cambiato, perché quasi nulla cambiasse. Purtroppo.

E allora eccomi qui, in questa gelida serata di gennaio. Respiro freddo e polvere di carbone - l'aria salubre del mare si deve essere dimenticata di arrivare fin qui - mentre, in compagnia solo della mia bici e dei miei pensieri, me ne vado verso la fabbrica dove lavoro da un paio d'anni a questa parte. Si trasforma l'acciaio che serve per fare le navi che portano i ricchi a divertirsi sul mare. O magari anche qualche poveraccio come noi, che cerca di attraversare l'Oceano per andare in America, un po' come i nostri nonni che avevano raggiunto l'Argentina fondandovi interi quartieri come la Boca di Buenos Aires. Soddisfazioni? Poche. Quasi nessuna.Le uniche me le prendo là, fuori dalla fabbrica. Il sabato sera, non sempre perché i soldi sono quelli che sono, ce ne andiamo a ballare con gli amici nelle balere della riviera qui vicina. Non ce l'ho la fidanzata, non ancora. Cioè: qualche ragazza per andare al cine ogni tanto la trovo, ma non ancora quella giusta con cui sposarsi e fare dei figli. La mamma è preoccupata e mi dice spesso: “Hai oltre ventitré anni e tuo padre alla tua età si era già sposato con me e c'eri già tu che piangevi, perché avevamo pochi soldi per comprarti da mangiare....”. Ma non è colpa mia se la donna che vorrei non ha ancora attraversato la mia strada. Succederà, prima o poi, ne sono certo. Ma ora probabilmente è ancora presto.

Comunque, la cosa che mi appassiona di più, da sempre, è il pallone. Il mio Genoa, soprattutto. Succeda quel che succeda, io i soldi che servono per andare a Marassi a vedere il Genoa  li trovo sempre. La domenica, prima di andare allo stadio in bicicletta, ci si ritrova con gli amici al bar vicino a casa mia, dove il gestore, tale Cici, è un grande tifoso ed ha tutte le foto dei campionissimi dei tempi eroici. Per la verità non solo quelle, perché poi nel suo bar trovi anche diverse foto di quel grandissimo campione che si chiama Fausto Coppi e che ha già vinto due Giri d'Italia, uno prima della guerra e l'altro lo scorso anno. “Io l'ho conosciuto, il Fausto...” mi dice spesso il Cici “...veniva qui qualche volta quando abitava a Sestri a casa dei parenti della moglie durante la guerra....partiva per allenarsi con la sua bici ed un paio di compagni e, certe volte, al ritorno si fermava qui a bersi un bicchiere d'acqua o di spuma....io avrei voluto offrirgliela....ma lui insisteva sempre per pagare per tutti....che uomo!...Che campione!...”Già. Che campione! Invece il Genoa adesso di campioni non ne ha mica tanti in squadra. Undici bravi cristi che corrono come dannati e che si fanno un mazzo così, ma nulla di più. Niente a che vedere con i grandi del passato: quelli che dominavano i campionati tra il finire del secolo scorso e l'inizio di quello che stiamo vivendo; quelli che hanno vinto il campionato nel 1923 e nel 1924, come il grande portiere  De Prà o il bomber Levratto, che non vinse mai il campionato perché arrivò l'anno dopo, ma le reti delle squadre avversarie le sfondava eccome! Guarda caso, io sono nato proprio nel '24 e purtroppo quei campioni li ho conosciuti soltanto nei racconti di mio padre e di mio nonno. E va beh. Il Genoa è il Genoa comunque, anche se non vince un campionato da oltre vent'anni ormai. Adesso è già tanto se ce la facciamo a rimanere nel massimo campionato e se, come è accaduto a novembre, riusciamo a toglierci la soddisfazione di battere l'altra squadra cittadina, nata un paio d'anni fa dalla fusione della Sampierdarenese con l'Andrea Doria. Una squadra senza passato e senza tradizione, e ci mancherebbe ancora che le prendessimo anche da loro!I campioni purtroppo adesso stanno da altre parti e girano alla larga da qui. Si chiamano Mazzola, Ossola, Loik, Castigliano, Gabetto, Maroso e giocano tutti nel Toro. Forse la squadra più grande di sempre, visto che ha vinto gli ultimi tre campionati e probabilmente conquisterà anche questo e i prossimi cinque, o dieci, chissà. Li ho visti giocare l'anno scorso a Marassi: abbiamo perso per 3 a 2, ma loro ci hanno letteralmente distrutti per settanta minuti, andando sul 3 a 0 grazie ai gol di Ossola, Grezar e Ferraris, e permettendoci poi di accorciare le distanze nel finale con Verdel e Trevisan. Ma al ritorno, disputatosi a Torino nel mese di giugno, i granata non hanno fatto sconti. Gol di Loik al ventesimo, poi tripletta di quel fenomeno assoluto che va sotto il nome di Valentino Mazzola, quindi il giovane Martelli e ancora Castigliano. 6 a 0 per i Campionissimi e tutti a casa! Una grande umiliazione per noi, anche se non è mai umiliante perdere contro chi è nettamente più forte. In quel caso non si può fare altro che applaudire.Anche oggi pomeriggio ci hanno battuti, a Torino. E pensare che avevamo anche segnato per primi grazie ad un gol di Brighenti. Poi ha pareggiato Gabetto, forse aiutandosi con una mano (almeno così hanno detto alla radio), e subito dopo ancora Mazzola ci ha castigati. Capitan Valentino, quello che quando decide si tira su le maniche e tutta la squadra inizia a giocare ed a fare grappoli di gol. Che campione! Che spettacolo!Abbiamo lottato ed abbiamo perso. Ancora una volta. Per adesso è così. Non abbiamo possibilità contro di loro, ma penso che verranno tempi migliori, anche per noi rossoblu. Verrà un futuro in cui potremo tornare a lottare contro di loro per vincere nuovamente il campionato. Per noi sarebbe il decimo della storia. Una meraviglia. Un sogno. Ci speriamo tutti qui. E comunque, prima che quelli con la maglia da ciclisti ci possano raggiungere, ne dovrà passare di acqua sotto i ponti del Polcevera che non vi dico!

Mamma mia quanti pensieri tutti insieme! Faccio sempre così quando vengo a montare per il turno di notte, soprattutto di domenica sera dopo un fine settimana di riposo. Comincio con un piccolo pensiero e poi gli altri seguono, come fanno i gregari quando l'arrivo si avvicina e qualche rivale del loro capitano scatta. Tra poco entrerò nel mio reparto, col capo squadra che avrà già subito qualcosa da ridire. E poi sotto con otto ore di lavoro pesante, duro, alienante. Che però mi permette di campare. Non mi piace per nulla fare il turno di notte! Bisognerebbe dormire, la notte, altro che lavorare!Che poi nelle ultime notti a casa non è che abbia dormito quel gran che. I vicini, quelli dell'appartamento accanto al nostro nel vecchio condominio in cui abitiamo giù a Cornigliano, hanno avuto un bambino da pochi giorni, che di notte ha pianto in continuazione, senza tregua. Forse ha fame. Forse chissà. L'ho visto l'altro giorno. E' un bel bambinone maschio. Mi pare si chiami Giampaolo. O forse Giampiero, ora non ricordo. Domani, quando tornerò a casa, me lo farò dire da sua mamma che ha più o meno la mia età.  Anche se so bene che i bambini piangono e sono una bella responsabilità, mi piacerebbe un giorno averne uno, o anche una femmina andrebbe benissimo. Lo porterei allo stadio con me a vedere il Grifo. Gli insegnerei le cose. Gli parlerei del passato. Cercherei di fargli capire cosa è giusto o cosa è sbagliato, almeno per me. Cercherei di farne un uomo, o una donna, con dei valori veri. Una persona che vada in giro per il mondo a testa alta. Ci penserò. Quel giorno è ancora lontano, per adesso. O forse no. Chi lo sa?Adesso è il momento di smettere di pensare, cioè di concentrarsi sul lavoro.Poi, da domani, dopo qualche ora di riposo (se Giampaolo/Giampiero me lo concederà...), riprenderò a pensare come faccio sempre. A fantasticare come nelle lunghe notti trascorse su in montagna, con un fucile in mano e tante speranze nel cuore.Ad immaginare un Paese che abbia come simboli il muso affilato da contadino povero di Fausto Coppi, e la faccia da operaio di Capitan Valentino. A sognare un mondo in cui il piccolo Giampaolo/Giampiero, o come cavolo si chiama, e i miei figli che verranno possano dirsi orgogliosi di vivere. Perché neppure la fatica che facciamo qui in fabbrica ogni giorno ed ogni notte potrà uccidere i nostri pensieri, i nostri sogni e le nostre speranze. Quelle stesse speranze e quegli stessi sogni che ci permettono, e ci permetteranno, di continuare a vivere.

 

 

Non so se il tifoso genoano di cui si parla in questo racconto si sia sposato e abbia messo su famiglia. Non so neppure se sia ancora vivo e, onestamente, non so nemmeno se sia effettivamente esistito.So per certo che le sue speranze ed i suoi sogni sono andati per la maggior parte delusi.So anche che quel bambino di cui lui parla alla fine, nato sessantaquattro anni fa a Cornigliano, tra le fabbriche della Genova che si stava riprendendo da una guerra che aveva messo in ginocchio l'Italia e l'Europa intera, si chiamava effettivamente Giampiero. Si sarebbe diplomato in ragioneria, prima di frequentare l'Isef a Milano ed iniziare ad insegnare nelle scuole genovesi. Parallelamente, avrebbe tentato di intraprendere la carriera di calciatore, senza grandissimo successo.Fu invece molto più fortunato come allenatore, divenendo col tempo uno dei più grandi maestri di calcio qui in Italia.Oggi, 14 gennaio, quell'uomo compie sessantaquattro anni. Quello di parlare della Genova delle sue origini è il mio modo, forse approssimativo, forse un po' strampalato, per fargli gli auguri.Buon compleanno, caro Mister! Lei è arrivato, ci ha capiti, ci ha presi da sotto terra per riportarci in vetta e ridarci dignità. Siamo un po' strani, alcuni di noi se la prenderebbero persino con Ferguson o Guardiola se allenassero il Toro, ma la maggior parte del popolo granata non smetterà mai di ringraziarla per quanto ha fatto finora e per quanto ancora potrà fare. Grazie di cuore e ancora auguri. E naturalmente Forza Toro, oggi più che mai!

Post scriptum: questo racconto è dedicato anche ai lavoratori della Fincantieri di Genova Sestri Ponente che proprio in questi giorno stanno lottando per la difesa del loro posto di lavoro.

(1) Imbelinare: in questo caso è usato col significato di buttare, riporre senza cura.(2) Mandrogno: qui usato genericamente come abitante della provincia di Alessandria.(3) Ghirba: otre contenente acqua ad uso militare. In questo caso, portare a casa la “ghirba” è sinonimo di sopravvivere, tornare a casa sano e salvo dalla guerra.