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Due sono i miei idoli nel calcio. Bryan Robson e Gary Lineker. Il primo ebbi la fortuna di incrociarlo casualmente all’aeroporto di Linate e il ‘best wishes’ che mi scrisse sulla penultima di copertina di un libro di Bukowski che avavo appena comprato resta l’augurio a cui tengo maggiormente fra tutti quelli che, bontà loro, diverse persone hanno ritenuto di riservarmi. Che giocatore, Robbo, o Captain Marvel, come lo chiamavano! Aveva iniziato la sua carriera nel West Bromwich Albion, la squadra della periferia di Birmingham che Roberto Di Matteo ha appena riportato in Premier League, e il suo trasferimento al Manchester United segnò un record in quanto a sterline spese. Realizzatosi grazie all’assunzione della panchina dei Red Devils da parte del suo manager all’Albion, ‘big’ Ron Atkinson, ebbe un’importanza tale in termini economici e tecnici, essendo Robson considerato il miglior giovane del tempo, che piazzarono un tavolino e una sedia nel mezzo del campo di gioco dell’Old Trafford e gli fecero firmare il contratto davanti a 46.837 tifosi, praticamente tutti quelli che lo stadio conteneva a quei tempi. Ma la sua dedizione e soprattutto l’abnegazione, che l’ha reso un eroe per via dei continui infortuni che l’hanno martoriato e di fronte ai quali i più si sarebbero arresi già da ragazzi, sono stati ripagati dall’affetto di quella gente. Altrettante firme, anzi molte di più, furono infatti raccolte nel giro di un solo pomeriggio per opporsi al suo paventato passaggio alla Juventus, che di fatti non si realizzò mai. A fare la differenza non furono dunque soltanto i dieci trofei conquistati con la maglia di un redivivo United (la maggior parte dei quali, compresi alcuni degli anni Ottanta, sotto la guida di Alex Ferguson, pensate), ma innanzitutto il suo cuore. Perché si sa, i campioni vanno e vengono ma le bandiere, quelle, no. Nemmeno a quei tempi, che oggi ci sembrano tanto meglio di quelli che viviamo ma che, pur essendolo per certi versi, non erano comunque perfetti. Fatto sta che quando si tratta di Robson i numeri non possono contare: con gli infortuni a ripetizione che gli hanno impedito di giocare una buona metà delle partite che avrebbe potuto fare, è bello allora che a lui siano riconducibili tre primati di tutto rispetto. Longevo come ha saputo essere a dispetto dei guai fisici, è il capitano che più partite ha disputato col Manchester United e il terzo che più volte ha guidato l’Inghilterra; a Spagna ’82, poi, segnò l’allora secondo gol più veloce nella storia dei Mondiali: gli bastarono appena ventisette secondi per mettere alle spalle di Ettori la prima delle tre reti con cui l’Inghilterra sconfisse (per 3-1) la Francia di Platini, Giresse e Tigana.Nel 1982, invece, della Nazionale inglese non faceva ancora parte l’altro mio idolo, Gary Lineker. Un campione ripercorrendo la cui storia si possono capire tante cose. Innanzitutto si può meditare sul fatto che la sua grandezza, con la sola eccezione della parentesi all’estero col Barcellona, riuscì ad andare oltre l’esclusione delle squadre inglesi dall’Europa in seguito alla tragedia dell’Heysel. Lineker, a cui mi sento legato anche perché è nato per me non casualmente il giorno del mio onomastico, è l’uomo dei record, e sappiamo che dietro a ogni record ci sono una prestazione piuttosto che un’impresa notevolissima e reale. Nel corso delle 523 partite giocate prima di chiudere la carriera in Giappone nel Grampus Eight che Wenger avrebbe invece allenato prima di lavorare in Inghilterra, ha segnato addirittura 282 reti, vale a dire più di una ogni due partite. Per tutta la durata della sua carriera, quindi, Nazionale compresa. Sì, perché con la maglia dell’Inghilterra è stato capocannoniere di Messico ’86 e vicecapocannoniere di Italia ’90, superato solo da Schillaci cui fecero battere un rigore nel corso proprio di Italia-Inghilterra, finale per il terzo posto. Al Leicester, dove iniziò a giocare, mise a segno poco meno di cento gol, all’Everton addirittura 38 in appena 52 incontri, quindi una cinquantina in tre anni al Barcellona, competizioni europee incluse e a tal proposito vincendo anche una Coppa delle Coppe e una Supercoppa, quindi circa settanta in cento partite al Tottenham, per lungo tempo al fianco di Gascoigne, e con la Nazionale niente meno che 48 in 80 partite. Non avesse sbagliato un rigore a Wembley, stipato all’inverosimile nella speranza di celebrare il raggiungimento di un record storico da parte di un campione amatissimo e meritevolissimo, avrebbe affiancato nient’altri che Bobby Charlton in testa alla classifica dei più grandi cannonieri dell’Inghilterra. E’ vero, non ce la fece, ma anche di questo sfortunato episodio si dimostrò immensamente più forte in virtù delle sue numerosissime virtù sportive e personali. In molti, per esempio, lo ricordano anche per non essere mai, dico mai, stato ammonito. Io per una delle tante triplette realizzate, quando non si trattava di poker (ben due), e cioè quella che fece a Messico ’86 contro la Polonia in una partita dentro-o-fuori della fase a gironi: saranno state le due del mattino e per non disturbare quanti non avrebbero compreso il mio entusiasmo mimai urli su urli in una delle immobili nottate milanesi che l’Italia del Bearzot-bis non aveva né avrebbe acceso. Ora Lineker commenta le partite per la BBC. Elegante ma implacabile in studio come lo era quando giocava, non ha perso il vizio di andare al sodo: parla fuori dai denti ma simulazioni, falli e furbate sul campo li evita volentieri.Quando ripenso a questi personaggi capisco quanto si possa, anzi si debba, andare oltre il risultato. Certo, può sembrare strano che prenda ad esempio calciatori che hanno sollevato anche parecchi trofei, ma come l’hanno fatto resta notevole. E la gloria non toglie necessariamente merito. Così come non sono lodevoli soltanto i perdenti: quella è retorica. Ognuno di loro ha avuto a che fare con una piaga di questo sport: da un lato i naturali ma talvolta implacabili infortuni, dall’altro l’innaturale comportamento umano. Alex Ferguson ha recentemente dichiarato che in considerazione degli infortuni che ne hanno condizionato le potenzialità considera Robson non solo il campione che ha saputo comunque dimostrarsi ma addirittura il più grande giocatore che abbia mai allenato. E Lineker è riuscito ad andare oltre i palcoscenici che ci siamo abituati a considerare per giudicare la grandezza di giocatori e squadre, capace com’è stato di impreziosire tutto quel che ha fatto: campionato e coppe inglesi hanno beneficiato della sua grazia selvaggia, un’attitudine che l’ha fatto eccellere in quanto a classifiche marcatori vinte e soprattutto squadre rivitalizzate, dal piccolo Leicester portato due volte nella massima divisione a Everton e Tottenham che con lui hanno aperto improvvise stagioni dorate. Mentre Robson, esplosivo com’è sempre stato, ha dovuto rallentare a causa degli infortuni, la carriera di Lineker è stata condizionata dall’idiozia di alcuni tifosi e dall’incuria delle istituzioni risultanti nell’esclusione delle squadre inglesi dalle competizioni europee per cinque anni (otto per il Liverpool). Proprio in quelle stagioni, però, coi rispettivi Club e soprattutto con indosso la maglia dei Tre Leoni, unica rappresentante del calcio dei padri autorizzata a giocare in quel periodo, hanno saputo andare oltre, eccellendo. E così, volendoli ricordare assieme, mi piace ripensare a questa foto che li ritrae mentre esultano dopo l’unico, inutile gol segnato da Robson all’Olanda nel corso dei fallimentari Europei del 1988. Nel loro sorriso prima ancora che nei loro pur fantastici piedi, infatti, ritrovo la grandezza.
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