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Sognando la Primavera

Redazione Toro News
di Walter Panero  La Milano-Sanremo che si è svolta sabato scorso mi ha spinto a scrivere questa storia che poco o nulla c'entra col nostro Toro, se non per il fatto che racconta anche alcuni episodi avvenuti qualche mese dopo la...

di Walter Panero

 

 

La Milano-Sanremo che si è svolta sabato scorso mi ha spinto a scrivere questa storia che poco o nulla c'entra col nostro Toro, se non per il fatto che racconta anche alcuni episodi avvenuti qualche mese dopo la fondazione del nostro amatissimo club. Chi non fosse interessato ad affrontare argomenti che portano a riflessioni ben lontane dal mondo del calcio può tranquillamente passare oltre. Ai coraggiosi che avranno la pazienza di seguirmi in questo “fuori tema” auguro invece buona lettura!

 

 

Ardenne, Fronte Occidentale. Dicembre 1917.

 

 

Sarebbe bello che fosse primavera. Invece siamo a dicembre e c'è un freddo cane tra queste colline imbiancate di neve che il sole lo vedono se va bene soltanto d'estate. Queste colline che conosco a memoria, perché ci sono passato decine di volte quando correvo. In primavera, però. Al massimo all'inizio dell'autunno. E non in questo maledetto inverno che ci gela le mani, i piedi e qualsiasi parte dei nostri corpi smagriti. Che meraviglia la luce della primavera! I colori della primavera! Gli odori della primavera!Vorrei tanto che fosse primavera! Come quella volta molto tempo fa. Sembra passato un secolo, ma sono solo dieci anni. Dieci anni cortissimi. Dieci anni lunghissimi. Dieci anni in cui le nostre vite si sono trasformate completamente, passando dal nulla al tutto, per ritornare di nuovo al nulla di questo gelo.

Non  ero mai stato a Milano, ma ci arrivai in un giorno di aprile. Tutti dicevano che in Italia faceva sempre caldo e invece quella mattina la temperatura non era poi tanto diversa da quella che trovavi da noi. C'era persino una nebbiolina quasi autunnale, la stessa nebbiolina che avevamo trovato alla Gare de Lyon di Parigi quando ci preparavamo a salire a nostre spese sul treno. C'era Gustave. C'era Philippe (1). C'ero io. C'erano le nostre facce smunte. C'erano i nostri vestiti che apparivano troppo larghi per noi, o forse eravamo noi ad essere troppo magri per poter essere contenuti in qualsiasi vestito. C'erano le nostre valige con dentro un cambio d'abito ed una maglia di lana colorata. C'erano soprattutto le nostre inseparabili compagne di viaggio e di lavoro, quelle che ci davano da mangiare e da vivere, quelle che ci facevano imprecare e sognare. Le nostre biciclette insomma. Ah le nostre compagne di viaggio amate ed odiate, che negli anni precedenti ci avevano permesso di attraversare l'intera Francia! Folle colui che decise che era possibile girarla tutta quanta in bicicletta! E ancora più folli noi che gli davamo retta! Per non parlare di coloro che se ne partivano dal Belgio, dall'Italia, dall'Olanda, dal Lussemburgo, insomma da mezza Europa per venire a sfidarci in casa nostra. Non si offriva nulla, se non fatica sovrumana. Non si offriva nulla, se non levatacce all'alba per poi essere costretti per ore ed ore a muovere le gambe e a respirare polvere e sudore: il nostro sudore, il sudore degli altri. Che pazzia! Che bellezza!

Non ero mai stato a Milano, dicevo, ma quella mattina alle quattro e mezzo non potevo fare a meno di essere puntuale all'appuntamento. D'altra parte erano mesi che i nostri giornali non facevano altro che parlare di quella nuova corsa che partiva dalla pianura fino a raggiungere il mare dopo quasi trecento chilometri di fatiche sovrumane. Non una semplice gara, ma un viaggio attraverso i paesaggi e le stagioni. Si partiva dall'inverno e, dopo aver attraversato le montagne, si giungeva al mare ed alla primavera. Una corsa durissima in cui avremmo trovato avversari terribili. Soprattutto avremmo trovato ad attenderci les Italiens, più agguerriti che mai. Li conoscevamo tutti, ormai. Uno per uno. Distinguevamo le loro facce e persino il loro modo di pedalare. C'erano Gerbi, Ganna, Galetti, Pavesi. Tutti di quelle zone. Tutti fortissimi. Tutti agguerritissimi. Non sarebbe stato facile batterli, proprio per niente. Ma ci avremmo provato e, se ci fossimo riusciti, i giornali di casa nostra avrebbero parlato di noi per giorni interi, trasformandoci in veri e propri eroi.

Partimmo che eravamo una trentina e, per diverse ore, pedalammo attraverso la pianura, divorando chilometri, freddo, nebbia e paesaggi tutti uguali e, in fondo, non molto diversi da quelli delle nostre campagne. “E questo sarebbe il paese ideale per passare le vacanze?” pensavo tra me e me mentre mi davo da fare per non perdere il contatto con i migliori del gruppo. “Bah....molto meglio la mia Bretagna!” continuavo a pensare.

Ma poi arrivò il momento. Quello che ancora adesso non riesco a togliermi dalla mente. Mi basta chiudere gli occhi per riviverlo e, nei momenti di sconforto, ci penso spesso per tirarmi su il morale. Percorremmo una lunga salita tra i boschi e poi, all'improvviso, dopo una galleria, alzando la testa, intravedemmo il mare azzurro e bellissimo sullo sfondo. In quell'istante mi resi conto di aver lasciato definitivamente l'inverno alle mie spalle. E con esso la fatica.Mi lanciai lungo la discesa e, mentre contemplavo il mare là in fondo, mentre mi riempivo i polmoni di aria fresca che sapeva di sale, capivo che nulla mi avrebbe potuto fermare. Il mare, il vento, il cielo mi facevano pensare alla mia Bretagna, pur così diversa da quel posto.Le gambe, prima bloccate dal dolore e dalla fatica, riprendevano a girare senza che io facessi sforzi. Non sentivo più la salita. Non sentivo più la sofferenza. Sapevo soltanto che il traguardo si avvicinava e che, prima o poi, avrei staccato tutti. Che sarei stato il primo della storia a vincere  quella corsa interminabile.

“Forza Lucien!....Allez Lucien!” gridava la folla riconoscendomi. Forse tra loro c'erano persino dei Francesi arrivati da Nizza, o dalla vicina Provenza, o chissà da dove. Ma anche gli Italiani mi applaudivano, perché in quel momento non ero più “lo straniero, il nemico” ma solo un ragazzo che faceva fatica, e nella fatica non ci sono nemici ma solo atleti da rispettare e da applaudire.

Ricordo ancora adesso l'urlo della folla che mi accolse quando tagliai il traguardo dopo oltre undici ore di corsa. Un urlo sovrumano che sapeva di rispetto per la fatica che avevo fatto, che avevano fatto i quattordici che erano giunti fino al traguardo. Mi godevo il mio trionfo e pensavo al ritorno in treno del giorno dopo. Pensavo che forse la gente mi avrebbe riconosciuto ed avrebbe detto: “Ecco! Quello è il vincitore della nuova grande corsa italiana!” ed io sarei arrossito dalla vergogna. Pensavo soprattutto alla Bretagna ed a casa mia. E mi sentivo felice come mai lo ero stato prima di allora. Una volta tornato a casa, mi sarei riposato per un paio di giorni e poi via. Di nuovo ad allenarmi. Per nuove corse. Per nuove sfide. Per provare a vincere la gara più importante. Il Tour, insomma. Per riuscirci, finalmente, dopo i piazzamenti degli anni precedenti. Una volta. Due volte. Il primo della storia a vincere il Tour due volte. Che gloria! Che tempi!

Si stava bene allora, e non solo perché avevo venticinque anni e adesso ne ho dieci in più. Erano bei tempi perché noi la guerra non sapevamo neppure cosa fosse. Sì, sì ne avevamo sentito parlare dai nostri vecchi della guerra contro la Prussia. Qualcuno ci parlava anche di Napoleone e della disastrosa Campagna di Russia. Ma erano cose che appartenevano ad un passato che non sarebbe tornato mai più. Un lontano ricordo per riempire i libri di storia. Insomma, una cosa che non ci avrebbe mai toccati da vicino. L'America, la Russia, il Giappone, l'Africa: ecco, quelli erano posti da guerre! Non certo la nostra cara vecchia Europa!

E invece.....chi l'avrebbe detto che solo pochi anni dopo ci saremmo ritrovati qui? Tutta una generazione qui. Francesi, Tedeschi, Inglesi, Austriaci, Italiani: gente che fino a pochi mesi prima pensava di potersi sfidare solo in un velodromo, sulla strada o su un campo da pallone, tutta quanta qui. A mangiare fango con sacchi di sabbia e filo spinato come unico orizzonte, altro che il mare e la primavera! Con un fucile in mano e nessuna speranza nel cuore. Bella roba stare lontani dalla propria casa e dalla propria famiglia! E per cosa poi? Per ammazzare gente di cui non sai nulla, se non che si tratta di coetanei che non ti hanno fatto niente di male. O per farsi ammazzare, che è ancora peggio.Eccoli là. Li vedo. I componenti del mio plotone. L'età non è poi così diversa da quella dei ragazzi che si presentavano alla partenza di una qualsiasi corsa, ma noi all'epoca avevamo la gioia negli occhi pur nella consapevolezza dello sforzo che dovevamo fare; loro solo tristezza.  Laurent di Parigi, Jean e Marius di Marsiglia, Jacques della Normandia, Bernard della Bretagna come me, Francis dei Pirenei, Raymond del Limosino, Roger di Nizza e tanti altri di cui non ricordo il nome, ma solo l'accento e la provenienza. Tutti qui vestiti uguali, ma in realtà così diversi. L'operaio con l'intellettuale, l'atleta con quello che non si muoveva dalla sedia in ufficio, il socialista col reazionario. Tutti qui in compagnia solo dei nostri fucili e dei nostri pensieri che, per lo più, ci riportano a casa. Gli stessi fucili e gli stessi pensieri che hanno sicuramente anche quelli che si trovano pochi metri di fronte a noi e che di diverso, oltre al colore dell'uniforme, hanno solo i nomi. Probabilmente si chiamano Fritz, o Hans, o Karl, o Peter ma sono esattamente come noi: poveri cristi, altro che odiosi crucchi come vogliono farci credere i nostri capi. Ma non diceva quello là che siamo tutti fratelli tra di noi, e figli dello stesso Dio? Sì....è così! Dev'essere cosi! E infatti guarda come sono uguali quei mucchi di corpi senza vita che stanno là in fondo: Karl o Charles? Jurgen o Georges? Peter o Pierre? Franz o François? In fondo chi se ne frega?!? Quando saranno dall'altra parte credo che il buon Dio non domanderà loro se sono crucchi o mangia rane, ma li giudicherà soltanto per quello che sono: brave o cattive persone. E basta. Anche se a scuola ci insegnavano che tutti i crucchi sono cattivi (e magari in Germania dicevano le stesse cose di noi) io non credo che esista un Dio Francese o un Dio Tedesco, ma solo un Dio e basta. E se c'è una cosa che so per certo è che se esiste veramente un Dio non potrà tollerare ancora a lungo questo abominio e punirà per sempre quelli che lo hanno voluto.

“Ehi Lucien! Cosa ci fai lì incantato?”  mi urla un ufficiale più giovane di me che ostenta sicurezza, ma che ha negli occhi una paura fottuta.

“Comandi, tenente!”

“Vieni qui! Il nemico ha sfondato e dobbiamo andare in aiuto all'altro plotone!”

Mi alzo. Lo seguo. Con me ci sono Laurent di Parigi, Jean e Marius di Marsiglia, Jacques della Normandia, Bernard della Bretagna come me, Raymond del Limosino, Roger di Nizza, Francis dei Pirenei e tanti altri di cui non ricordo il nome. Le teste basse. L'aria di chi sa di andare incontro alla morte, o alla mutilazione, perché anche se dovessimo sopravvivere oggi, la morte arriverà prima o poi. E solo un miracolo ci potrà salvare.

Sarebbe stato meglio se almeno fosse stata primavera. Sarebbe stato meglio se fossimo andati a Milano, o a Parigi, o a Liegi per la partenza di una qualsiasi corsa.Invece qui è inverno e ci stanno mandando a morire.Invece qui è inverno e stanno facendo sparire un'intera generazione.

 

Lucien Georges Mazan nacque a Plessé (Loire Atlantique, Bretagna del Sud) il 18 ottobre del 1882. Si trasferì per alcuni anni in Argentina e là gli venne dato l'appellativo di Petit-Breton (Piccolo Bretone) ed è con questo pseudonimo che è passato alla storia dello sport.Rientrato in patria, si dedicò al ciclismo e si aggiudicò la Paris-Tours nel 1906. Ma il suo nome è legato soprattutto alla vittoria nella prima edizione della Milano Sanremo, tenutasi il 14 aprile del 1907, davanti al connazionale Gustave Garrigou ed agli Italiani Giovanni Gerbi e Luigi Ganna, che giunse al traguardo staccato di oltre mezz'ora dal vincitore. Sempre nel 1907, Petit-Breton si aggiudicò il Tour de France, che rivinse anche nell'edizione successiva passando alla storia come il primo corridore ad aggiudicarsi per due volte la grande corsa francese, la cui prima edizione risaliva al 1903. Partecipò anche per due volte al Giro d'Italia, aggiudicandosi nel 1911 la tappa di Torino che prevedeva per la prima volta la scalata del Colle del Sestriere.La sua carriera finì, come quella di molti atleti dell'epoca, nel 1914 con lo scoppio della Grande Guerra: partì per il “Fronte Occidentale” e venne ferito sulle Ardenne nel 1917.In seguito alle ferite riportate, trovò la morte all'ospedale di Troyes il 20 dicembre del 1917.

 

(1) Gustave Garrigou e Philippe Pautrat: ciclisti francesi che parteciparono alla prima edizione della Grande Corsa.