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Rammento una telecronaca datata di Luigi Colombo per Telemontecarlo. Assieme a Bulgarelli stava commentando un incontro casalingo dell’Inghilterra e disse: “Chi ama il calcio deve assolutamente vedere una partita a Wembley. E’ un’esperienza unica e indescrivibile.” Io me ne stavo davanti al vecchio televisore in bianco e nero, che rendeva ancor più compatta la massa dei tifosi che riempivano il cosiddetto Tempio del calcio, lo stadio più bello del mondo, più bello persino del Maracanã. E capivo, sentivo che doveva esserci davvero qualcosa di magico intorno a quello stadio. Ero già stato in Inghilterra e continuavo ad andarci con regolarità, a partire dall’estate del 1982, subito dopo che l’Italia aveva vinto il Mondiale di Spagna. Ricordo perfettamente il moto di stizza spontaneo che ebbi al che, appena sbarcati, passammo in pullman di fianco a una serie di campi da calcio pubblici (fra le decine che ogni centro urbano ha lassù) e un bambino accanto a me indicando i ragazzi che ci stavano giocando esclamò qualcosa come: “Ma guarda questi… cosa si credono, di poter insegnare il calcio a noi?” Da quel commento in poi l’Inghilterra ed io fummo una cosa sola. Al punto che fra gli amici mi toccò reggere il peso delle prestazioni sportive di una Nazione intera. Ho ancora negli occhi il gesto dell’ombrello che mi fecero al che l’Inter, per una volta, riuscì a eliminare l’Aston Villa. Idem quando a fatica fece fuori il Norwich. Ricordo anche un mio ritratto di Rush, per anni centravanti simbolo del Liverpool padrone dell’Europa, che un amico juventino mi strappò perché il gallese in Italia stava giocando male. O gli sfottò al limite del violento quando l’Arsenal perse una Finale europea con Seaman che prese un gol da centrocampo. E dire che non tifo Aston Villa né Norwich, ma neanche Liverpool e tanto meno Arsenal: io amo il calcio inglese, più precisamente britannico. Con l’improvvisa ascesa continentale delle italiane in seguito all’esclusione di quelle fortissime inglesi dopo l’Heysel, i poveri di spirito che mi circondavano ebbero vita facile a pontificare sulla supposta qualità assoluta del calcio nostrano rispetto a quello d’Inghilterra. Arrivarono a dire che lì avrebbero potuto costruire anche solo i secondi anelli degli stadi “tanto fanno solo cross e colpi di testa”... C’è comunque da considerare che con quel che potevano permettersi di scrivere moltissimi giornalisti propagandisti nell’era pre-satellitare, quando la verità non era sotto gli occhi di tutti, non c’era da stupirsi se poi la gente snobbava il calcio inglese, oltretutto associandolo agli hooligan secondo una presentazione aberrante della storia e della cronaca. A me bastò che il Manchester United, al primo anno dopo la squalifica, vincesse immediatamente Coppa delle Coppe e Supercoppa battendo rispettivamente il Barcellona e la Stella Rossa campione d’Europa. E che un gol di Rush, proprio lui, permettesse al piccolo Galles di battere l’Italia a Brescia. Peccato davvero per come finì Italia ’90, perché se l’Inghilterra avesse vinto nonostante le sue squadre di Club da anni non potessero giocare in Europa forse quel moccioso che mi sedeva accanto nel 1982 si sarebbe finalmente ammutolito… Dicevamo di Wembley, però. Ecco, se tanto ho girato l’Inghilterra, cioè ho visitato i suoi stadi, ai tempi della telecronaca di Colombo l’Empire Stadium di Wembley ancora mi mancava. Era come se al pari della maggior parte delle squadre inglesi e dei loro tifosi, che ogni anno sognavano di arrivarci per disputare una Finale di Coppa pur sapendo che ben difficilmente ce l’avrebbero fatta, anch’io dovessi anelare a quel traguardo per molto tempo. Numerosi soggiorni in località diverse del Paese ma sempre lontano da Londra fecero sì che lì ci arrivassi soltanto nel 1994. Nel frattempo Wembley me lo gustavo per televisione e sui periodici, al pari di milioni di inglesi di ogni età, ma non per questo non lo godevo: la sua immagine, anche se riprodotta attraverso pixel e stampa, non perdeva appeal. Il Milan alzava Coppe su Coppe? E allora? Il calcio era Wembley. Il calcio raggiungeva l’apice a Wembley. Un tempio, lo definivano. E non si sbagliavano. Quando ci entrai la prima volta avevo già superato l’emozione di camminare sotto le sue due torri, che stavano lì a simboleggiare il calcio dagli anni Venti in qua. E poi fu un continuo, inevitabile incanto. Quel che rendeva unico quell’impianto andava oltre ciò che rappresentava. Non era solo la storia. Era il perfetto equilibrio fra spalti e campo. Più di centomila spettatori nei tempi passati ma solo pochi meno anche una volta inseriti i seggiolini creavano una cornice possente ma rispettosa al tempo stesso del vero tesoro del calcio: il campo e i giocatori, che riuscivano sempre a spiccare. Il campo, non dimentichiamolo, è un prato verde, è natura, ed è delimitato da linee bianche come bianchi sono i pali e le reti. E allora come non amare i sostegni posteriori curvi e pitturati di verde delle porte del vecchio Wembley, studiate per non interferire cromaticamente né strutturalmente con quel giardino? Giuro che di altrettanto rispettoso dell’ambiente ho visto solo il Palazzo d’Inverno fuori Pechino, i cui elementi non sono verdi ma grigi però per lo stesso motivo. E così la muraglia umana che incarna l’anima delle squadre, lasciando ai giocatori il solo compito di metterci fiato e animo, riusciva a fondersi nel panorama generale. E quello stadio assurgeva ad autentico tempio, in cui il risultato della partita era solo uno dei tanti aspetti di un’unica, ineguagliabile e comunque indimenticabile giornata di festa all’anno. O di poche, se si considerano anche Nazionale, Finali dei playoff e qualche altro appuntamento. Splendido scenario anche per i concerti o per le corse dei cani del giovedì sera, quando l’eco degli urli dei presenti poteva essersi ridotto a risuonare come un rosario recitato la mattina presto in chiesa, ma per lunghi anni queste competizioni erano state un appuntamento fisso per decine di migliaia di appassionati. Se si trattava di calcio, però, di meglio non c’era. E se del calcio inglese si riesce a parlare indipendentemente dai risultati, pensando all’atmosfera (la sua famosa atmosfera che vanta innumerevoli tentativi di imitazione), alle maglie e ai colori, un motivo ci sarà! Ecco, Wembley di tutto questo era l’apoteosi. A Wembley è stato anche seganto il gol per me più bello della storia: Norman Whiteside a Neville Southall con un tocco di esterno sinistro dal limite dell’area, tiro incrociato dopo un doppio passo (dalla foto s’intuisce la stupefacenza del colpo, con Whiteside che rimane quasi completamente nascosto dietro il suo marcatore, che gli stava francobollato, ed è costretto a sporgersi per vedere se la palla sta entrando in rete). Finale di FA Cup storica, quella del 1985, giocata davanti a 99.445 spettatori che come sempre con le loro maglie e sciarpe dividevano in due le gradinate, blu da una parte e rosse dall’altra: ci fu il primo giocatore espulso nella storia di questo evento, Kevin Moran, che giocava per il Manchester United che avrebbe vinto. Mentre per quel fantastico Everton neocampione d’Inghilterra e fresco vincitore della Coppa delle Coppe sfumò il sogno del Double inglese e anche del Treble (la tripletta, non chiedetemi di scrivere ‘triplete’ come se fossi spagnolo, per favore) e dopo la tragedia dell’Heysel che si sarebbe consumata di lì a un paio di settimane pure quello della partecipazione alla Coppa dei Campioni. Beffardo come dopo non aver vinto il campionato per 15 anni, non fosse stato per la squalifica delle inglesi per coprire le colpe della UEFA avrebbe potuto giocare nella più importante manifestazione europea per due volte in tre anni.Ora quando si collegano con Wembley devo concentrarmi qualche secondo per capire se non si stia giocando all’Emirates o al ‘da Luz’ di Lisbona. Impianti meravigliosi, ci mancherebbe, altro che il nuovo Olimpico di Torino che non posso non considerare, con orrore, la massima espressione dell’architettura sportiva italiana in Italia del momento. Ma tutti tristemente e squallidamente uguali. Mi chiedo se sarebbe costato tanto ammodernare il vecchio Wembley lasciando però immutato il suo scenario. Ci sono volte, poi, in cui ho ancora sulle labbra la sensazione che mi lasciò il bacio che diedi all’erba del suo campo di gioco. Altre volte, invece, mi rammarico di non essere andato davvero a incatenarmi davanti alle sue Twin Towers per provare a fermarne l’abbattimento. Se sarebbe valso a qualcosa? Dipende da come s’intende il calcio. E anche la vita.
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