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10 e Ljajic

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Sotto le Granate / La rubrica di Maria Grazia Nemour. "Quando nel luglio del 2016 si iniziò a vociferare che Ljajic gravitasse nell’orbita del Toro non mi sembrava vero..."
Maria Grazia Nemour

Adem Ljajic, il nostro dieci.

Quando nel luglio del 2016 si iniziò a vociferare che Ljajic gravitasse nell’orbita del Toro non mi sembrava vero, caspita, che talento avevamo attratto a noi! La puntata più alta che avesse fatto Cairo fino ad allora, nove milioni di euro. Ma i sentimenti nei suoi confronti diventarono ambivalenti fin dalle prime battute: Ljajic non si mostrava particolarmente entusiasta di venire a Torino, la Roma si era già resa disponibile alla cessione ma per lui un po’ era sì, un po’ era vediamo che altro posso fare.

Allora si disse che fu Mihajlovic a sfoderare una corte serrata nei confronti di Ljajic, fino a convincerlo. È l’uso di quel verbo “convincere” che ho trovato da subito indigesto.

Che coppia originale, Miha e Adem. Quattro anni prima si erano presi a cornate in Serbia, e nessuno dei due aveva fatto un passo indietro rispetto alle proprie convinzioni. Ljajic si era rifiutato di cantare l’inno della nazionale  prima della partita contro la Spagna e Mihajlovic glielo aveva giurato: non ti convocherò più, fino a che non canterai. Era il 26 maggio 2012, solo qualche giorno prima, il 2 maggio, Ljajic rimediava dal suo allenatore Delio Rossi un pugno in faccia a Firenze, nella partita contro il Novara. Rossi lo aveva sostituito e Adem gli aveva sarcasticamente battuto le mani lasciando il campo. Boria contro violenza, la fiera degli orrori.

Nel 2016 il destino dà un nuovo appuntamento a Miha e Adem, sotto le corna del Toro, stavolta. Due serbi a Torino. Due persone che si sono spesso trovate a combattere una parola percepita nella sua accezione più negativa: zingaro. Personalità complesse, figlie della terra travagliata in cui sono nate. Non voglio fare psicologia da quattro soldi perché la vita è fatta di tante cose, ma di sicuro nascere chessò io, in Toscana, e portarsi in pancia l’armonia delle colline, è diverso che nascere nel 1991 a Novi Pazar, in una Serbia che odora, suona e ha l’incolore di una guerra.

Uno dei pochi meriti che riconosco a Miha è quello di essere stato coerente con Ljajic, lo ha cercato, voluto, lo ha difeso e ha creduto in lui fino alle ultime battute del suo corso al Toro. Non ha domandato a Ljajic di adattarsi al Toro, ma ha pensato un Toro che si potesse adattare alle caratteristiche di Ljajic.

Quell’Adem Ljajic che si era portato dietro le sue fantasmagoriche luci unite alle immancabili ombre lunghe dalla Fiorentina alla Roma, poi all’Inter.

Nessuno come Adem Ljajic sa alternare pennellate d’autore nelle punizioni e dribbling armoniosi che eludono l’uomo, a partite abuliche in cui si fa fatica a capire se sia ancora in campo, il talentuoso dieci della tre quarti.

Chi lo definisce apatico, indolente, svogliato, accidioso, irresoluto e chi fantasioso, imprevedibile, geniale.

Sì è lui, Adem Ljajic, il nostro dieci.

Nelle prime battute di questo campionato ho avuto la sensazione che qualcosa in Adem di fosse assestato, in campo lo vedevo più responsabile del gioco suo e di quello dei compagni. Un piglio più convinto, motivato. Ma poi l’altalena ha ripreso il suo andare, e le sue giocate, a oscillare.

L’infortunio a dicembre, e dopo l’infortunio Miha che se ne va, Mazzarri che arriva. Ljajic che resta, ma in panchina. Il posto in squadra da riconquistare. Febbraio con un nuovo infortunio in allenamento e in sottofondo il suono delle sirene dello Spartak Mosca, altre cantano dalla Cina, dagli Stati Uniti.

Adem Ljajic che torna a giocare contro il Verona, confermando che non gli mancano i numeri per essere il dieci granata.

 

Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.

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