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columnist
“I miti sono fatti perché l’immaginazione li animi”.
Albert Camus
La pubblicità, a volte, riesce in pochi secondi laddove non riescono tomi voluminosi, inchieste giornalistiche, documentari e film. In questi giorni mondiali, circola per le varie reti televisive italiane un spot della più importante azienda energetica italiana, dove si invita, anche attraverso la presenza silenziosa di Fabio Capello, a riflettere sul reale “peso” di una maglia della nazionale italiana di calcio. Lo spot comincia con una maglia azzurra adagiata su una bilancia, che ferma il suo display elettronico a 150 grammi, per poi “tagliare” su tifosi italiani in festa e su Fabio Capello mentre guarda in tv i giocatori azzurri in festa dopo aver vinto il campionato del mondo. Si capisce che quei 150 grammi sono solo una convenzione fisica, e che il peso specifico aumenta quando una maglia ha il potere di farti ritornare indietro nel tempo, nei tuoi ricordi e nei ricordi raccontati dalle generazioni che ti hanno preceduto.
La sera del 14 novembre 1973, giorno di Inghilterra/Italia nel palcoscenico dello stadio di Wembley, era stata preceduta da articoli della stampa inglese, davvero deprecabili e stupidi, che definivano la squadra italiana e gli italiani un popolo di camerieri. E i camerieri di certo non avrebbero mai potuto violare Wembley, tempio del calcio mondiale. Invero anche la stampa italiana era molto scettica sulle reali possibilità degli azzurri di poter fare risultato nella “casa” dei bianchi d’Inghilterra. A casa mia l’attesa della partita fu davvero particolare, visto che mia madre era un’ “enclave” italiana situatasi nella famiglia Weatherill poco dopo la Seconda Guerra Mondiale. La giovanissima Antonietta, questo era il nome di mia madre, aveva lasciato la natia Torre del Greco per seguire a Manchester il suo sogno d’amore dalle fattezze di un soldato inglese dell’ Ottava Armata: mio padre Bob. Tenacemente aveva imparato l’inglese attraverso tutti i modi possibili, anche attraverso i programmi televisivi. Era un’emigrante con un solo un desiderio: quello di tornare, un giorno, in Italia. Io, mio padre e mio fratello(inglesi fino al midollo), incuranti del suo sentimento italiano, nei giorni precedenti la partita discutevamo della superiorità calcistica, e non solo quella, inglese. A volte i popoli del nord hanno questo incomprensibile e insano complesso di superiorità verso l’Italia. Nell’immediato dopoguerra l’Inghilterra diventò presto una delle mete preferite degli italiani emigrati per cercare una fortuna lavorativa impossibile da realizzare nell’Italia di quel periodo. I lavori a cui si sottoponevano erano in effetti quelli più umili, e molti si erano ritrovati a servire nei pub e nei ristoranti. Ma l’orgoglio di essere italiani, credetemi, non li aveva mai abbandonati.
Quell’orgoglio, venne calcolato, aveva spinto gli emigranti del Bel Paese ad impossessarsi di ben 30.000 biglietti, su 100.000 messi in vendita per quella che sarebbe diventata una delle partite storiche del calcio italiano. Qualcuno ha scritto che “la storia è un rumore che rompe il silenzio, un urlo inaspettato che riecheggia in uno stadio, e in quello stadio si moltiplica di colori, restando vivo in eterno”, e quella sera di un freddo novembre inglese del 1973, è proprio quello che devono aver provato i 30.000 tifosi italiani quando Fabio Capello all’86esimo del secondo tempo depositò alla destra di Shilton il gol della prima storica vittoria italiana a Wembley. Al fischio finale dell’ arbitro portoghese Marques Lobo, dei tifosi italiani “invasero” il prato dello stadio portando in trionfo una bandiera italiana quasi grande come le loro speranze. Quella sera un altro tassello di peso specifico andò ad aggiungersi a quei 150 grammi della maglia azzurra. Una volta anche le maglie dei club pesavano molto, e a peso aggiungevano peso. Non era facile che i giocatori cambiassero squadre, e sovente, anzi, le loro carriere si svolgevano quasi per intero in unico club. Questo permetteva loro di capire il concetto del “giocare per la maglia” e di “di dare tutto per la maglia”. Erano giovani ragazzi che con quella maglia diventavano adulti, assorbendone tutti i connotati identitari, utile per forgiarne gli orizzonti esistenziali. Era possibile, così, quella simbiosi tra tifosi e giocatori, oggi ormai praticamente impossibile. La “legge Bosman” ha cambiato inesorabilmente questo stato di cose, conferendo ai giocatori una totale libertà di movimento alla ricerca del più remunerativo dei contratti e ai loro procuratori un potere talmente soverchiante, da condizionare praticamente i destini della maggior parte dei club mondiali.
Questa girandola continua dei giocatori, difficilmente disposti a restare più di tre anni nello stesso club, oltre ad aver aumentato a dismisura i costi dei cartellini e degli stipendi, ha riportato il peso della maglia dei club ai soli 150 grammi canonici. E quando il peso di una maglia rimane nel recinto dei 150 grammi, e difficile chiedere a dei giovani di aumentarne il peso specifico. Volendosi mettere nei loro panni, non c’è una sola ragione perché lo debbano fare. Sono professionisti che mettono pro tempore a disposizione le loro prestazioni pedatorie, e non gli si può davvero chiedere di comprendere ciò che realisticamente non possono comprendere. Il futuro del calcio voluto e prefigurato è esattamente quello che stiamo vivendo. I calciatori non sono più disposti ad incarnare un mito, perché l’unica scelta nel loro orizzonte è quella del divismo. Essere un divo, in una società dove ormai tutto è diventato spettacolo, è l’unica condizione per monetizzare il più possibile il talento donatogli da madre natura. Ormai solo i tifosi vivono nella speranza del mito, la vera sostanza di cui è fatto il calcio sin dai suoi albori; naturalmente rimangono attoniti quando vedono i giocatori non comprendere il senso della maglia che stanno indossando. Bisogna stare attenti a queste modificazioni della struttura genetica del calcio, perché un giorno i tifosi potrebbero trovarsi nella triste condizione di meri clienti. Un po’ di sollievo, al nostro amato gioco, lo sta portando, al solito, il campionato del mondo. L’identità nazionale, il posto in cui sei nato, è qualcosa che nemmeno i soldi possono corrompere fino in fondo. E allora rivediamo i giocatori dare tutto per la maglia, e addirittura commuoversi per un gol fatto. Quei 150 grammi tornano, ancora una volta, ad aumentare grazie ai contenuti naturalmente emessi dai giocatori.
Deve essere una grande emozione, specie per un giovane, poter finalmente dare sfogo a tutto il suo carico di ideali, liberi da tutti i lacci e lacciuoli imposti dai loro procuratori. Si gioca per la nazione, si gioca per casa tua. “Casa mia”, raramente si può trovare un’espressione più bella. Ai mondiali il calcio si riappropria del mito, facendoci fare un salutare tuffo nel passato. Purtroppo, tra otto anni(edizione 2026), probabilmente anche i mondiali lasceranno il mito per fare spazio allo spettacolo. Perché cosa altro potrà essere, se non uno spettacolo, un mondiale con 48 squadre partecipanti? Tutti felici perché gli organizzatori di quei mondiali(Stati Uniti, Canada e Messico) hanno promesso introiti per oltre 14 miliardi di dollari. Non mi stancherò mai di ripetere che i soldi, nel calcio, dovrebbero essere una conseguenza non il fine. Quando i soldi diventano il fine, ogni cosa si svuota di contenuti. E l’aumento dei nostri famosi 150 grammi, a quel punto, può avvenire solo se si aggiunge qualche grammo di scritta pubblicitaria sulle maglie. Perché sta succedendo tutto questo? Una lezione viene dal vorticoso sviluppo delle società pubblicitarie a partire dagli anni 50, espansione dovuta non al soddisfacimento di bisogni noti, ma all’imposizione sul mercato di bisogni fino ad allora sconosciuti. Bisogni creati dal nulla, diventati indispensabili grazie al genio dei pubblicitari.
Nel dopo partita di Inghilterra/Italia del 1973, il giovane Fabio Capello dedicò il suo gol a tutti gli emigranti italiani. Capello è nato sulle rive dell’Isonzo, dove molti fanti italiani caddero per completare l’unità del loro Paese, e in quel luogo geografico del Friuli non solo il sentimento patrio è molto sentito, ma è anche molto presente la nostalgia per tutti quei figli costretti ad emigrare per trovare lavoro. A volte la storia disegna curiosi destini, e direi che è quasi logica una prima vittoria italiana a Wembley firmata da un figlio dell’Isonzo. Il dopo partita in casa Weatherill, in quella lontana sera del 1973, fu di prostrazione assoluta. Credo di ricordare in mia madre, ferma a guardare i suoi principali affetti sconsolati per la sconfitta, un mezzo sorriso, o addirittura un ghigno, di soddisfazione. A lei non importava molto del calcio, ma quella sera il suo Paese aveva battuto un bel colpo. E lei, ne sono sicuro, visse la cosa con una lieve felicità. Ah, quanto possono essere importanti quei 150 grammi.
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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