Non parlerò di Var, un acronimo che solo a sentirlo nominare mi fa venire il voltastomaco.
columnist
Abbiamo paura della nostra ombra
E’ innegabile che alla luce di quanto sta accadendo diventa difficile giudicare in modo razionale il campionato del Toro. Gli errori commessi ai nostri danni sono ormai troppi per non ammettere che è impossibile conoscere la reale dimensione della squadra. Poche storie; i punti di cui siamo stati derubati sono almeno sei o sette per cui neanche il tifoso più avvelenato può negare che – nonostante un gioco poco convincente, una squadra che segna con il contagocce e il solito mercato incompleto - con una classe arbitrale equa e onesta saremmo al quarto o quinto posto.
Ciò detto, ho la sensazione che Cairo abbia scelto l’allenatore perfetto per consolidare la sua passione per il centro classifica e per stagioni all’insegna della mediocrità: la partita di Sassuolo ne è l’ennesima conferma. E’ vero, Banti non ha visto il clamoroso fallo su Zaza, ma il pareggio degli emiliani è meritatissimo; anzi, se una squadra doveva vincere è quella di De Zerbi. Venti tiri in porta, dodici calci d’angolo e un secondo tempo passato nella nostra metà campo fino alla frittata finale. Dopo il gol del Gallo è venuto fuori tutto ciò che il tifoso di una squadra ambiziosa non vorrebbe vedere: atteggiamento degno del Padova di Nereo Rocco, remi in barca, paura, tirare a campare, attesa del fischio finale, nessuna idea di gioco.
Mazzarri ha il merito di aver dato al Toro una buona organizzazione difensiva, ma temo sia l’allenatore meno indicato per prendere a calci quella maledetta sindrome da perdenti che si è insinuata nel nostro dna da un ventennio a questa parte. Mazzarri veicola sensazioni di timidezza, conservatorismo e grigiore, tutte caratteristiche da evitare come la peste se si desidera togliersi di dosso quella patina di dabbenaggine e paura che fanno sì che il Toro da tempo immemore fallisca puntualmente ogni prova di maturità, sia sempre a metà classifica, non batta mai una “grande”, perda decine di derby e stia mettendo a dura prova tifosi che a proposito di pazienza ne sanno più di Giobbe. Il mister deve lasciare andare il freno a mano, studiare soluzioni offensive ed evitare di dire che la rosa è a posto per compiacere il presidente.
Mazzarri è un buon allenatore, in carriera ha ottenuto ottimi risultati. Ora, però, è tempo di svoltare, la nostra sopportazione è agli sgoccioli. Dimostri di essere capace di spingere la squadra a passare dalla dimensione dello “spero” alla dimensione del “voglio”. Si tratta di uno dei caposaldi della psicologia sportiva: si spera di vincere al Superenalotto, si spera che a Capodanno ci sia bel tempo, non di fare una grande partita o di portare a casa i tre punti quando si è in vantaggio. Il concetto di “speranza” è legato a situazioni di cui non abbiamo controllo (appunto il meteo, la botta di fortuna); il concetto di “volontà” da situazioni che dipendono da noi.
Questo aspetto emerge in tutta la sua evidenza nei minuti finali di una partita. In quei momenti, comprensibilmente, capita di essere assorbiti dall’urgenza, ma si sa, quando si fanno le cose di fretta è facile sbagliare. Quando si è in vantaggio, può capitare di sentire la palla che scotta e calciarla tanto per liberarsene, o nascondersi dietro gli avversari, o assentarsi, o contare i secondi: è fondamentale non fare nessuna di queste cose. L’errore che molti calciatori e molte squadre fanno negli ultimi minuti è di mettersi a sperare che tutto passi in fretta, non vedere l’ora che finisca. Questo spirito conduce a uno stato di deconcentrazione; può infatti succedere che si cominci a guardare l’arbitro invece che il campo, o la panchina alla ricerca di qualche compagno che ci dica quanto manca, oppure che venga da pensare al dopo partita.
Spinti dal desiderio e dallo stress, inconsciamente, si inizia a pensare che è finita. E’ per questo che può accadere che se arriva la palla tra i piedi quella non è più una palla da giocare come si fosse nel match, ma una palla da trattare con sufficienza, o con stanchezza, come fosse un extra che non è più il caso di fare. E può appunto succedere che Belotti non gestisca il pallone, Ichazo non esca e Rincon perda l’uomo nell’area piccola; può appunto succedere che si prenda gol di testa da un giocatore che supera a stento l’1,60 di statura.
La gestione dei minuti finali fa la differenza tra una grande squadra e una squadra “normale” ed è soprattutto l’allenatore colui al quale spetta trasmettere il giusto atteggiamento. Noi granata, per quanto riguarda la gestione dei minuti finali, siamo “subnormali” (sarebbe quasi offensivo da parte mia ricordarvi le volte in cui siamo stati beffati nei minuti di recupero).
Guardate le grandi squadre: nel finale di partita tutti diventano leoni. La palla diventa un figlio che nessuno può portare via; la concentrazione feroce su ogni singolo attimo.
La grande squadra è concentrata sul processo, sul “qui e ora”, non sul risultato. In quegli attimi, infatti, non deve esistere passato (“abbiamo segnato e stiamo vincendo”), non deve esistere futuro (“tra poco andiamo sotto la curva a festeggiare”); deve esistere solo il presente, il pensiero che ogni palla è la più importante della vita e va giocata al meglio.
Noi tifosi possiamo permetterci di “sperare” (non dipende da noi). Chi è in campo no: deve “volere” la vittoria a tutti i costi e fare tutto ciò che serve per conquistarla.
Buon Natale a tutti gli amici e le amiche granata!
Marco Cassardo, esperto in psicologia dello sport e mental coach professionista. E’ l’autore di “Belli e dannati”, best seller della letteratura granata.
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