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columnist
Arrivederci Anthony
“Buonanotte finché
non sarà mattino”.
William Shakespeare
Siamo nati per perdere le cose, ritrovandoci subito immersi in una corsa sistematica e inesorabile disegnata da un algoritmo misterioso che ci impone una sottrazione continua alla quale non possiamo opporci. La prima cosa a perdersi è il tempo, perché esso passa come l’acqua di un fiume verso il mare, donandoci nel suo fluire stupore e incredulità. L’acqua fiumana sa che prima o poi il mare è il suo destino, perché è per la sua immensità è stata pensata sin dal momento in cui la goccia dalla sorgente è planata tra le correnti del fiume. La seconda cosa che perdiamo è l’innocenza, perché le regole del fiume hanno da proporre solo una corsa ad ostacoli, tutti tesi a provare a corrompere la purezza originaria donata dalla sorgente. La vera sfida è non smarrire, nel gioco delle correnti, la sua memoria. Anthony è sempre rimasto cosciente sul ricordo della sorgente, sapendo di dover spendere al meglio la vicenda dell’esistenza. E ciò, posso testimoniarlo con certezza, è sempre stata la costante a guidarlo. E’ stato un simpatico pentagramma su cui ha cercato di comporre solo melodie che valesse la pena di ascoltare. Era un inglese tutto tondo, con un senso dell’ironia a volte difficile da decodificare per un italiano, ma la parte italiana(campana) donatagli dalla madre, Antonietta, lo riconduceva solitamente alla voglia di carezze, simbolo di un “animus” italico più incline al sorriso, che all’asprezza anglosassone.
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Manchester era la sua “Camelot”, il luogo magico dove era nato e cresciuto, e dove aveva conosciuto il più importante e misterioso senso della sua vita: il Manchester United. Matt Busby, grande amico di suo padre Bob, era stato il padrino del suo battesimo, che non è questione da poco una volta solcato in direzione nord il canale della “Manica”. Essere cattolico non era sicuramente un dettaglio per sir Matt, quasi sempre presente alla Celebrazione Eucaristica quotidiana prima di recarsi all’allenamento dei suoi “Babes”, e quindi averlo accompagnato all’ingresso della vita di ogni buon cristiano, ha sicuramente lasciato il segno di cercare, nelle cose del mondo, più la sostanza che l’effimero. A percorrere la biografia di Anthony c’è da rimanere con la bocca aperta per la meraviglia, anche perché non c’era luogo del mondo che non avesse visitato e con relativo aneddoto da raccontare. Ogni tanto, con il suo sorriso ironico, amava mostrarmi il suo passaporto del Regno del Tonga, concessogli direttamente dal re, di cui era buon amico. Si è occupato di preziosi per tutto il mercato mediorientale, ha progettato e costruito campi da golf, è stato consulente di Turgut Ozal, che fu primo ministro e uno dei padri della patria della Turchia moderna. Si è occupato di tante di quelle cose da perderne il conto e la memoria, eppure erano trent’anni che gli stavo vicino condividendo molti suoi sogni e molte sue battaglie.
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Il calcio era la sua grande passione, anzi era il suo grande amore. Non era un amore esagitato e neppure ossessivo, era piuttosto un modo per declinare le questioni della vita a cui teneva di più. Era amore per la sua città natia, Manchester. Era amore per la bellezza e la poesia. Ma era, soprattutto, amore per la gente e per il tempo che verrà. Il suo sguardo era continuamente rivolto verso il futuro, e verso le generazioni future erano rivolte molte delle sue preoccupazioni. Non riusciva a concepire l’attuale disattenzione di chi dovrebbe preoccuparsi di lasciare le cose un po’ migliori di come le ha trovate. Non è retorica, ma solo semplice verità, se ricordo a me stesso la sua ansia di lavorare per un mondo un po’ più decente. “Bisogna partire dai bambini se vogliamo avere qualche speranza di non smarrire definitivamente il senso del mondo”, soleva ripetermi spesso, di fronte ad un calcio ormai sempre più lontano dal “Teatro dei Sogni”, e sempre più immerso nella sua trasformazione in macchina mangia soldi. Ecco perché negli ultimi tempi si stava dedicando anima e corpo alla costruzione di una città dello sport a Ryad, che nella sua visione avrebbe dovuto essere riservata a bambini e adolescenti provenienti da tutte le parti del mondo. Per lui il calcio non era né un mezzo di riscatto, né un mezzo di redenzione.
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Il pallone per lui era un mezzo di formazione e di memoria, dove i sentimenti delle comunità potevano incontrarsi nel bel mezzo di un prato verde. Voglio dire una cosa con forza ai lettori di TN: lui credeva sul serio ad ogni parola che diceva o scriveva, persino nelle virgole e nei punti. Non era nato per il cinismo, e pur di non abbassarsi ad esso ha sempre preferito essere scambiato per un ingenuo o un antico. Personalmente mi veniva da ridere quando lo apostrofavano così: non lo conoscevano, è evidente. La sua più grande delusione è stata lo scippo ricevuto dell’idea della “Carta del Tifoso”, trasformata, dal Ministero degli Interni, in una volgarissima “carta di sicurezza”. Mi ha fatto promettere di non rivelare mai ciò che successe al Ministero degli Interni, nella calda estate del 2005. Manterrò la promessa, ma voglio che i tifosi sappiano come la Carta del Tifoso progettata da Anthony sarebbe stata uno straordinario mezzo per permettergli di entrare attivamente nella vita delle loro squadre del cuore. Non gli interessavano le polemiche gratuite, anzi: non gli interessavano proprio le polemiche. A lui piaceva argomentare, soprattutto per comprendere qualcosa di più del punto di vista del suo interlocutore, fosse il barista sotto casa o il Principe Alberto di Monaco. Era orgoglioso di essere inglese, ma amava profondamente la sua parte italiana, e negli ultimi anni era costernato nel vedere l’Italia scivolare sempre di più verso un baratro da cui non si vedeva(vede) il fondo.
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Il “Mondo Toro” lo aveva intrigato molto, ed era felice di incontrare i tifosi granata ogni settimana su “Loquor”. Sentiva di avere con loro delle affinità elettive e la stesso modo di vedere il calcio come dovrebbe essere, e non come è diventato. “Il Toro – diceva – è un’isola diventata incomprensibile per non ritrovarsi comprensibile nel calcio di adesso”, e si rammaricava come Urbano Cairo non avesse ancora imparato ad amare l’incomprensibilità granata. Pochi giorni fa, sentendo la sua ora farsi sempre più vicina, mi aveva affidato una breve riflessione di commiato per i lettori che avevano avuto la bontà di seguirlo in tutti questi anni: “ricordatevi sempre che voi(tifosi del Toro) non siete una razza in via di estinzione, voi siete la razza che resiste. Se anche lo temete, non scomparirete: siatene certi. La sorte è stata benigna, nel riservarmi la possibilità di parlare un po’ con voi. E’ stato un bel modo di chiudere questa vita, per me che ho sempre amato il calcio. Spero possiate perdonare se ogni tanto vi siete sentiti da me provocati, non era mia intenzione farlo. Vi auguro di trovare un presidente che sappia davvero interpretare il vostro stato d’animo, perché anche uno come me è riuscito a capire come per voi tifosi granata è questo, più che i soldi, davvero a contare”. Da stamattina non faccio che ricevere messaggi di cordoglio da ogni parte del mondo, e scorrendo la rubrica del tuo smartphone sembrava essere davanti ad un rotolo di carta senza fine. Pian piano ho cominciato a scrivere ai tuoi contatti, non per avvertirli che non c’eri più, ma per ricordargli che c’eri stato. Arrivederci Anthony, arrivederci amico mio. Ci vediamo alla prossima fermata.
Di Carmelo Pennisi
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