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Cairo e la Premier League

Anthony Weatherill
Loquor / Torna la pregevole penna di Anthony Weatherill, che questa volta ci parla del confronto col campionato inglese

Il chiaro riferimento al “modello Premier League” è apparso francamente, a chi abbia un minimo di conoscenza delle cose, subito fuori luogo. Il voler mettersi addosso un vestito cucito per un altro Paese, è diventata inspiegabilmente (almeno per me) ormai pratica consuetudinaria nella storia dell’Italia degli ultimi trent’anni (basti pensare a tutte le vicende legate all’adesione del Belpaese al sistema della moneta unica europea). Vediamo di percorrere brevemente alcune delle vicende che hanno portato alla nascita della Premier League. Le vere svolte epocali avvengono sempre, purtroppo, a causa di guerre o grandi tragedie. Il 15 aprile del 1989, nel corso della semifinale della FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest all’Hillsborough Stadium di Sheffield, morirono 96 tifosi del Liverpool a causa della precaria e fatiscente organizzazione della struttura dello stadio (in molti settori degli stadi inglesi, specie quelli frequentati dalle tifoserie più calde, si continuava ad assistere alla partita in piedi). La commozione che attraversò il Regno Unito a causa della tragedia fu di quelle che lasciano il segno. La risposta che diede l’allora primo ministro Margaret Thatcher, fu di quelle che rimangono significative nel tempo, varando la storica riforma (basata sul Rapporto Taylor) sulla sicurezza negli stadi di calcio. L’allora Cancelliere dello Scacchiere(il ministro delle finanze inglese) John Major, aumentò (attraverso uno storno delle tasse sul gioco d’azzardo) in modo rimarchevole la dotazione finanziaria del “Football Trust” (il fondo statale nato nel 1975 per migliorare gli standard di sicurezza negli stadi), a cui i club calcistici inglesi si rivolsero per ottemperare agl’obblighi di ristrutturazione totale degli stadi voluto dal terzo governo Thatcher e dal successivo governo Major.

In breve tempo gli stadi inglesi assunsero l’aspetto di tranquilli e lussuosi salotti, attirando una nuova tipologia di tifosi (sempre più abbienti) e ricchi sponsor. Inoltre, in quel fatidico inizio degli anni 90, l’emittente televisiva a pagamento BSkyB (British Sky Broadcasting) di Rupert Murdoch fece la sua irruzione nel mercato dei diritti televisivi del calcio inglese, ponendo la principale pietra fondante per la storica dimissione delle 22 squadre della vecchia First Division dalla Football League e, molto più sostanzialmente, dalla gestione dei diritti televisivi attraverso la Football Association. Il 27 maggio del 1992 le squadre ribelli diedero vita alla Premier League al posto della First Division, trasformando la massima serie del campionato di calcio inglese da sport popolare e accessibile a tutte le classi, in un luogo dove ogni tipo di contrattazione finanziaria (quotazione in borsa compresa) fosse possibile. E quando la finanza rende ogni tipo di mercato possibile, ecco che affaristi da ogni parte del mondo cominciano a trovarvi degli interessi economici o geopolitici. Presto le storiche vecchie proprietà dei club inglesi (City, United, Arsenal, Leicester, ecc…)   furono sostituite da sceicchi vari, oligarchi russi, ricchi americani specializzati in gestioni di società delle leghe sportive professionistiche più ricche.

Tutto ciò, come ho avuto più volte occasione di dire, ha portato ad uno scollamento tra club e tifosi, dovuto anche al fatto che il peso politico (e quindi di controllo) della Football Association è stato praticamente azzerato. Oggi una società della Premier League può prendere tranquillamente e autonomamente la decisione, per un qualsiasi e anche futile motivo, di sospendere a tempo indeterminato un suo abbonato. Questo perché lo stadio inglese non è più il ritrovo di una comunità (e quindi implicitamente una proprietà morale virtuale collettiva), ma è stato ridotto ad una banale gestione privatistica alla stessa stregua di un teatro seppur importante. E’ un sistema, quello che ha assunto la Premier League nel tempo, che non mi piace, ma che ha seguito uno sviluppo coerente che i club inglesi e lo stato inglese(attraverso adeguate riforme sostenute finanziariamente) avevano deciso sin dall’inizio degli anni 90. Il tutto confortato da un’organizzazione strutturale del mercato, dal codice civile e penale, dallo stato inglese assolutamente all’altezza degli obiettivi che ci si era prefissati per cambiare il calcio inglese. Le cose brevemente qui descritte (e mi scuso per la necessaria e dovuta semplificazione tipica di un articolo), non potrebbero mai avvenire in Italia; perché, appunto, non esistono vestiti che si adattino ad ogni situazione (questo a prescindere se si è favorevoli o contrari ad una rivoluzione tipo Premier League). Il timore è che Urbano Cairo e soci stiano cercando di far diventare il calcio sempre più “cosa loro”, escludendo ogni tipo di organo di controllo politico (la Federcalcio) sulle loro azioni (e qui finirebbero le analogie con il tentativo di far diventare la Serie A come la Premier). Da ciò discende, visto che ogni rivoluzione deve essere sempre preceduta da un periodo di caos, la necessità, da parte dei presidenti della Serie A, di lasciare deliberatamente la Lega seria A e la FGCI senza una governance.

Da ciò discende un incredibile mancato accordo sul rinnovo dei diritti televisivi del calcio(voglio essere malizioso: l’asse dei presidenti che vogliono una Serie A stile Premier e le televisioni potrebbero aver determinato la scarsa valutazione dei diritti del campionato italiano). Da ciò discende tutte le importanti questioni da risolvere rimaste in sospeso(tipo la nomina del nuovo commissario tecnico della nazionale) a causa del sorprendente vuoto di potere creatosi nel mondo delle istituzioni del calcio italiano. Ai vogliosi di una Serie A stile Premier vorrei, in conclusione, ricordare alcune cose. Il connubio con la televisione è riuscito nella Premier League, poiché in Irlanda e Uk gli utenti Sky si aggirano ormai intorno ai 36 milioni (contro gli 8 milioni di utenti italiani).  Inoltre il mercato dei capital ventures (i capitali di rischio, necessari per ogni tipo di sviluppo di mercati) in Inghilterra ha raggiunto il valore di 3,6 miliardi di dollari(in Italia, fino ad oggi, si arriva ad un massimo di 200 milioni di euro. Anche se qualcuno ha azzardato che entro il 2020  forse potrebbero arrivare capitali per un miliardo di euro. Anche a voler abbracciare questa ottimistica previsione, si starebbe sempre intorno ad un terzo del mercato inglese). E per finire, lo stato italiano, a differenza di quello inglese che ancora continua ad investire, non ha né la voglia né le risorse per favorire una ristrutturazione (con annessa clausola di proprietà) degli stadi italiani. Per brevità mi fermo qui con i dati, anche se ce sarebbero altri molto interessanti che sancirebbero in modo chiaro ogni impossibile analogia con una ipotesi Premier italiana (voglio ricordare, comunque, che nonostante l’aumento continuo dei ricavi,  il problema dell’indebitamento delle società della Premier League non è stato risolto. Argomento che affronterò prossimamente). Ho già avuto occasione di riconoscere a Urbano Cairo una certa abilità imprenditoriale, ma lo scenario che sempre più sta prefigurando mi trova in totale disaccordo, e non solo per le cose dette sopra. Cairo, come tutti, ancora una volta sta dimenticando che il calcio è di tutti, è dei tifosi. Ogni possibile nuovo vestito da mettere alla Serie A dovrà tenere conto della realtà italiana e dei tifosi italiani. Qualcuno ha detto che “la vita non dovrebbe essere stampata su una banconota”. Ecco, direi che per i tifosi, animati da sempre a vera passione, la vita è proprio così. Che Urbano Cairo (e i suoi compagni di cordata) non lo dimentichino.

(Ha collaborato Carmelo Pennisi)

Anthony Weatherill, originario di Manchester e figlioccio dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.