“Il mondo sarà salvato dalla bellezza”
columnist
Cairo, il Natale e la speranza
Fedor Dostoevskij
Sta scritto: “Golia gridò agli israeliti di scegliere un uomo che combattesse contro di lui, ma nessuno voleva combattere contro il gigante. Golia lanciò il suo invito ogni mattina e ogni sera per 40 giorni, ma nessuno voleva combattere contro di lui”. La Juventus ha firmato un contratto di oltre 400 milioni di euro con l’Adidas, che così ha riconosciuto economicamente il salto di qualità commerciale avuto dalla società bianconera con l’acquisto di Cristiano Ronaldo. Salto di qualità che presto si esprimerà anche attraverso nuovi sponsor su base “regionale” (Cina e sud-est asiatico), e che faranno giungere la Juventus la cifra di 235 milioni di euro annui dai contratti commerciali. Per la serie: Golia ormai si è appalesato non alle porte, ma addirittura dentro le porte posizionandosi al centro della “città”. Conosci il tuo Golia. Ne riconosci il passo e la voce tuonante. Ti sbeffeggia con bollette che non puoi pagare, con persone che non puoi accontentare, con vizi che non riesci ad eliminare, con un passato che non puoi scrollarti di dosso e con un futuro che non hai la forza di affrontare. Davide. Si potrebbe leggere la storia di Davide e chiedersi cosa Dio ci vedesse in lui. Già, cosa mai dal 1906 ci vede ogni giorno, Dio, sul Torino Calcio? Perché nel drammatico dopoguerra italiano affidò proprio a questa società il compito di lanciare un segnale di speranza ad un’intera nazione, attraverso quell’avvenimento entrato nella storia delle pietre senza età come “Grande Torino”? “Davide vide il gigante Golia e lo sentì gridare. Egli vide che gli uomini avevano paura di Golia. Allora Davide disse che avrebbe combattuto contro il gigante”. Davide era l’ultimo di otto fratelli e il suo destino, nelle complesse e sovente intricate vicende delle famiglie ebraiche del tempo, era quello di badare alle pecore e alla necessità di creare solide premesse di futuri “negozi”.
La sua sorte non era certo quella di diventare re, ma sappiamo come la storia andò diversamente dalle intenzioni. Fu il coraggio di non accettare la sudditanza psicologica verso Golia, a cambiare il destino di colui che diventò uno dei più grandi e saggi re d’Israele. Fu la sua capacità d’analisi(la visione della paura verso Golia che aveva immobilizzato da ogni possibile azione i soldati israeliti, e che li avrebbe portati a sicura sconfitta contro i Filistei), a fargli prendere in mano una fionda e delle pietre e a consegnare alla storia il monito eterno che l’unica cosa da dovere temere è il cedimento alle nostre debolezze, o supposte tali. Si cade e ci si rialza, ed è finita solo quando è finita. E la caduta dell’Italia dopo il ventennio fascista e una devastante vicenda bellica, era stata davvero di quelle rovinose, da far sembrare il domani qualcosa di impossibile da avvenire. Perché mai si sarebbe dovuto affrontare il Golia della sconfitta? Non se ne aveva certo la forza e, soprattutto, non se ne scorgevano i motivi. Gli italiani erano i reietti dell’Europa, quelli ad aver appoggiato entusiasticamente la follia nazista. Pareva non esserci redenzione per una cosa simile,e poi tutta quella distruzione e quella povertà dilagante sembravano essere dei contrafforti ad ogni idea degli italiani di ricostruire e ricostruirsi.
Ci sono momenti della storia così, oggi l’Italia sta rivivendo un momento così. La luce abbagliante del Grande Torino fu la fionda con cui la gente italica capì di avere delle pietre da lanciare contro i suoi molteplici Golia. Quelle molteplici vittorie della squadra granata, quella bellezza espressa in ogni loro schema di gioco, avevano in sé i connotati del miracolo, ovvero le stimmate della meta storia diventata concretezza davanti agl’occhi delle persone dell’epoca. Si può capire la portata dell’importanza di quella squadra per tutti gli italiani, da una clamorosa confessione fatta qualche anno fa da Umberto Agnelli: “è strano e incredibile, ma la prima squadra per la quale ho fatto il tifo è stato il toro. Ricordo che quando arrivò la notizia della sciagura di Superga stavo facendo i compiti, e mi sembrò talmente enorme da essere impossibile. Mi ritrovai in strada con tanta altra gente che, con me, non riusciva a crederci”.
La tragedia di Superga sembrò un qualcosa da cui era impossibile rialzarsi, ma altri compiti attendevano i colori granata, altra storia doveva percorrere l’Italia e la sua comunità calcistica. La Fiat ridiventò forte come prima della guerra, e conseguentemente la Juventus tornò a posizionarsi sullo scranno del Golia della storia. Erano gli anni del boom economico e di un’Italia elevatesi a rango di potenza industriale mondiale. Il “Paese dello Stivale” diventava sempre più prospero, il suo tessuto sociale si secolarizzava e si relativizzava sempre di più, rendendo sempre più labili e opachi tutta una serie di valori per secoli architrave di generazioni di italiani. Ma il Davide/Toro non si era arreso alla deriva e, soprattutto, non aveva abiurato al ruolo che la storia, attraverso il Grande Torino, gli aveva assegnato. Tutti vedevano il Toro sempre lì a lottare contro lo “strapotere creso” juventino, tutti lì a registrare settimanalmente l’impossibile passibile di diventare possibile. E la Juventus lo sapeva bene, ecco perché aveva paura di giocare il derby della Mole. Sapevano bene i bianconeri che la meta storia aveva dotato i granata di fionda e pietre, per dimostrare al mondo come la sconfitta non sia un destino ineluttabile. Per nessuno. Finchè il calcio è stato il calcio, e non un reticolo di poderosi interessi economici, il Torino ha combattuto la battaglia assegnatagli dalla sorte come compito: nessuna paura da mostrare contro Golia.
Ricordo il titolo di prima pagina del Corriere dello Sport , quando la società granata compì gli ottant’anni della sua storia: “ottant’anni di toro. In fondo lo amiamo un po’ tutti”. Ci sono destini che si intrecciano, e quando l’Italia sul finire degli anni 90 entra in una delle sue crisi più profonde della sua esistenza, facendogli conoscere una paura sempre più crescente in questo finire del 2018, è proprio il Torino a smarrirsi. Uno smarrimento culminato nel fallimento del 17 novembre del 2005. Da allora tante cose sono successe, e in primo luogo il depauperamento progressivo della ricchezza e del tessuto sociale italiano. Urbano Cairo prende in mano le sorti della società granata avendo, se non altro, il merito di rianimarla e di non far disperdere una comunità e un patrimonio di valori. Ma il Davide/Toro, oggettivamente e da qualsiasi lato la si voglia vedere, non è più tornato. Questo fenomeno è, a mio modesto parere, uno dei segnali più evidenti di un Italia demoralizzata, presa dalla morsa della terribile tentazione di non crederci più. Il capace imprenditore alessandrino ha però ancora la possibilità di segnare il suo nome sul taccuino della storia, ha la chance di mandare un segnale al comune sentire degli italiani. Esattamente come lo fecero “Gli Invincibili” nel dopoguerra. Se la Juventus ha deciso di prendersi come palcoscenico il mondo e le sue tentazioni di enormi ricchezze, il Toro di Cairo potrebbe tornare a diventare il cuore pulsante dell’Italia. Potrebbe essere una delle testimonianze concrete di un Paese pronto a rialzarsi in piedi e a combattere le sue battaglie. Senza paura.
Hanno bisogno del Toro delle mille battaglie le nuove generazioni per capire che non è stata una sfortuna nascere e vivere nell’Italia contemporanea; ne hanno bisogno le generazioni coi capelli bianchi, per rinfrancarsi sul fatto che il loro sacrificio e la loro esistenza non sono stati inutili. Il Toro deve tornare a smuovere le certezze dei juventini di lignaggio alla Umberto Agnelli, per ricordare a noi tutti che solo la bellezza sopravvive alle nostre miserie e alle nostre paure. Solo la bellezza può darci l’eterna occasione di riprovarci sempre. Caro Urbano Cairo, tu hai questo onore e onere per le mani: rimetti il Torino al suo posto nelle vicende italiane. In questo natale del 2018 umilmente ti chiedo di provarci e di crederci. Se lo farai, molto ti tornerà indietro. In questi giorni in cui si festeggia il Natale, ovvero la nascita di un uomo a cui solo nel secolo scorso sono stati dedicati 62 mila volumi, e c’è una frase letta in un vangelo apocrifo ronzante nella mia mente da sempre:”chi si stupisce regnerà”. La storia dell’uomo di Nazareth insegna che bastano la mangiatoia come culla, le spine come corona, e una croce come trono per avviare una storia di gloria e di speranza. Per buona pace dell’Adidas e dei suoi munifici contratti di sponsorizzazione. Auguro ai tifosi del Toro, grato in eterno per la loro attenzione, che il loro presidente possa farsi prendere dallo stupore per le meraviglie intessute nella storia e nei valori della squadra presieduta. E che la battaglia contro la Juventus possa riprendere, nella lealtà e nel valore che il Toro e i suoi tifosi hanno sempre avuto. Lo si deve all’amore per il calcio. Lo si deve all’Italia. E anche perché il natale non sia ridotto ad una mera e ciclica convenzione mercatistica.
Di Anthony Weatherill
(ha collaborato Carmelo Pennisi)
Anthony Weatherhill, originario di Manchester e nipote dello storico coach Matt Busby, si occupa da tempo di politica sportiva. E’ il vero ideatore della Tessera del Tifoso, poi arrivata in Italia sulla base di tutt’altri presupposti e intendimenti.
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