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columnist
Finalmente abbiamo vinto una partita importante contro una big. Non ci capita quasi mai, la felicità è grande. Non è stata una gran prestazione; si sono rivisti i soliti pregi e i soliti difetti del Toro. Grande organizzazione, un pacchetto difensivo all’altezza della Champions League, un centrocampo con tanta grinta e poca qualità e due attaccanti che fanno tutto meno che attaccare. Per ora Mazzarri ha dimostrato di essere da otto in quanto a solidità e organizzazione di gioco, ma ben lontano dalla sufficienza in quanto a manovra offensiva: palle lunghe e cross dalle fasce, nient’altro.
E’ vero che manca un fantasista in grado di creare la superiorità numerica (incredibile la testardaggine di società e staff tecnico nel non voler provvedere), ma nonostante ciò con gli attaccanti di cui disponiamo si potrebbe e dovrebbe fare meglio. Ora siamo arrivati al momento della verità: nelle prossime sette partite, eccezion fatta per la trasferta del San Paolo, incontreremo squadre alla nostra portata. Ha ragione il grande Armando Izzo (mi sto innamorando di questo giocatore, può diventare il nuovo Pasquale Bruno): è il momento di centrare un filotto di vittorie. E siamo al dunque: la cronica incapacità del Toro di superare le prove di maturità. Non appena abbiamo qualcosa da perdere, immancabilmente la perdiamo. Ormai da anni, la nostra squadra è incapace di reggere qualsiasi pressione, anche l’obbligo di vincere a Carpi per andare in testa alla classifica di Serie A dopo 37 anni o contro l’Albinoleffe per vincere il campionato di B.
Come tutte le squadre prive di mentalità vincente, appena giunge il momento di confermarsi crolliamo. Facciamo spesso bene, invece, quando siamo all’ultima spiaggia. Ieri contro l’Inter la situazione era abbastanza disperata: se si perdeva si andava a 6 punti dal sesto posto e le speranze europee avrebbero iniziato a ridursi al lumicino. Non solo, giocavamo contro una squadra più forte, per cui chi scendeva in campo non aveva nulla da perdere e tutto da guadagnare.
Questo atteggiamento è un classico della psicologia di gruppo e riguarda soprattutto l’atteggiamento degli atleti più giovani o più fragili caratterialmente: quando hai tutto da perdere, la mente inizia a pensare al peggio e a creare film negativi. Al contrario, quando hai tutto da guadagnare la mente inizia a visualizzare film entusiasmanti, la voglia di stupire prende il sopravvento e spesso si vince. Vi ricordate cosa combinò la Danimarca agli Europei del 1992? Non doveva neanche partecipare. Fu convocata all’ultimo secondo per l’esclusione da tutte le manifestazioni sportive internazionali della Jugoslavia, impegnata in una terribile guerra civile. I giocatori danesi furono richiamati prima dell’inizio della competizione: chi era in vacanza a Rimini con la fidanzata, chi in montagna a prendere il sole, chi in viaggio… I ragazzi danesi sulle prime non capirono. Poi dovettero arrendersi all’evidenza: era tutto vero, dovevano partire, fare le valigie, rintuzzare l’incazzatura di mogli, fidanzate e figli e correre in Svezia: in dieci giorni bisognava trovare una condizione decente per evitare figure oratoriali. Furono dieci giorni vissuti alla grande; i danesi avevano un unico obiettivo: divertirsi.
Il resto della storia lo conoscete: fu una cavalcata trionfale e la Danimarca si laureò campione d’Europa sconfiggendo in finale la Germania. In quei trenta giorni di giugno i ragazzi danesi mostrarono al mondo intero che, molte volte, quelli che chiamiamo miracoli non sono altro che la conseguenza di un favoloso stato di libertà mentale. Il loro trionfo fu uno sberleffo alla pressione e all’ansia da prestazione che aveva disintegrato la serenità delle superpotenze del calcio europeo.
E’ fondamentale ritrovare la gioia e la felicità con cui si giocava in cortile, quando eri il più forte e tutto ti veniva facile, segnavi valanghe di gol ed eri l’idolo degli amici. Leggerezza e gioia: gli stati d’animo che hanno permesso ai danesi di scrivere una delle pagine più straordinarie della storia del calcio. Sembra incredibile, ma a tutti i livelli è necessario ritrovare le sensazioni del campetto, quando si provavano giocate impossibili senza che nessuno sottolineasse con urla e insulti i tuoi errori. Sembra un paradosso, eppure è così: il mondo professionistico, al contrario del mondo del cortile, è afflitto dalla mentalità perdente. In cortile conta chi vince, comanda la gioia; hai sbagliato due gol? Pazienza, ne hai fatti cinque e ti sei esibito in una rovesciata che neanche Pulici. Il mondo del calcio professionistico ribalta la prospettiva: le tue giocate migliori sono date per scontate e i tuoi errori sono evidenziati con il pennarello rosso.
La conseguenza è ovvia: la mente si riempie di emozioni negative, un semplice errore inizia a essere vissuto come limite e l’autostima inizia a vacillare. In cortile facevano tutti il tifo per te e ti invitavano a sognare, ora sei uno dei tanti e ti dicono di volare basso. In cortile andavi a testa alta, ora ti dicono di abbassare la cresta ed entri in campo con le gambe che tremano. Cos’è l’ansia da prestazione se non questa?
Ricreare lo stato d’ebbrezza e riportarlo su tutti i campi del mondo. E’ questo il segreto dei grandi giocatori e delle grandi squadre. Morale della favola? Forza ragazzi: contro la Spal come contro l’Inter c’è solo da guadagnare: divertitevi, date il mille cento e uscite dal campo convinti di avere fatto il massimo. Non avete nulla da perdere, mai. Fate il più bel mestiere del mondo. Godetevelo. E fateci godere.
Marco Cassardo, esperto in psicologia dello sport e mental coach professionista. E’ l’autore di “Belli e dannati”, best seller della letteratura granata.
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