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columnist
Resta un mistero il perché un imprenditore come Urbano Cairo, uno che può tranquillamente definirsi un imprenditore di successo, si accontenti di vivacchiare nel suo essere padrone e presidente del Torino. Per uno che ha fondato un impero pubblicitario ed editoriale ed ha da poco messo le mani sul terzo polo televisivo italiano, i risultati ottenuti dal suo Torino sembrano quasi macchie in un curriculum da tycoon più che medaglie da aggiungere ad una lunga collezione. Eppure la realtà dei fatti sembra suggerire che da buon pubblicitario l'intento di Cairo comprando il Torino non fosse altro che quello di ottenere visibilità personale secondo il vecchio detto nel bene o nel male l'importante è che se ne parli e che quindi non gli importasse granché accumulare successi nel mondo del calcio ma sfruttarne semplicemente il volano mediatico per ricavarne esposizione mediatica per sé e per le sue attività imprenditoriali extracalcistiche. Come a dire che non gli interessava mietere successi ad alto costo come hanno fatto i Berlusconi o i Moratti, ma piuttosto passare da illustre sconosciuto a volto popolare come un Preziosi o un Lotito qualsiasi. Ed in effetti, se questo era l'obbiettivo, non si può dire che non sia stato raggiunto: quanti conoscevano Urbano Cairo prima del 2005 e quanti sapevano che faccia avesse?
Però dopo otto anni al timone del Torino e dopo gli alti (pochi) e i bassi (tanti) della sua gestione, viene da chiedersi come mai un signore tanto ambizioso non abbia dentro di sé una voglia di rivalsa e di riscatto verso l'unica ciambella che non gli è riuscita con il buco. Perché va bene il denaro, va bene il potere, va bene il navigare tra gli squali della finanza italiana, ma ci sono sfide che toccano corde dell'animo di certi uomini di successo che vanno al di là dei soldi, del potere o della convenienza economica e politica. Può capitare che quando si ha tutto quello che manca o quello a cui si può ancora ambire sia nient'altro che entrare nella storia, cioè far sì che il proprio nome sopravviva alla propria fine e si perpetui nel tempo.Nel suo piccolo, Urbano Cairo ha di fronte a sé questa possibilità attraverso le sue gesta di presidente del Torino Calcio. Qualunque tifoso medio granata, dai più giovani ai più anziani tra tutti i presidenti granata ne saprebbe citare almeno due: Ferruccio Novo ed Orfeo Pianelli. Il primo per essere stato il creatore di quella macchina perfetta che fu il Grande Torino, il secondo perché fu l'unico a riportare i fasti di quel Toro nel dopo Superga. A Cairo non si chiede di raggiungere la gloria eterna facendo vincere al Toro una Champions League, cosa che peraltro sarebbe assai gradita se proprio volesse, ma più modestamente gli si propone di entrare definitivamente nella storia granata entrando dalla porta laterale visto che non ha i mezzi o la volontà per farlo da quella principale.Il patron si ritrova, infatti, per le mani una gallina dalle uova d'ora che di nome fa Alessio e di cognome Cerci. Grazie ai buoni uffici di Ventura il talentuoso mancino romano è tornato ad essere quello che molti gli avevano pronosticato, cioè un grande giocatore e, in quanto tale, le sue quotazioni di mercato sono schizzate alle stelle. Se Cairo volesse emulare Novo o Pianelli, comprerebbe in ogni ruolo altri Cerci e potrebbe, con un po' di fortuna, ottenere grandi risultati. Ma siccome, non so perché, ma mi sento che non è questo il piano A del nostro presidente, mi permetto di suggerire un piano B che gli consenta di perseguire nella sua parsimoniosa gestione e al tempo stesso ottenere quel posto incancellabile nella Storia granata con la s maiuscola.A giugno si aprirà un'asta per la cessione di Cerci: si vocifera che il ragazzo possa valere sui 15 milioni, ma in caso di annata stratosferica e di apparizione significativa nel mondiale brasiliano non è detto che il suo valore non possa sfondare il muro dei 20 milioni. Trattenerlo al Toro si rivelerebbe praticamente impossibile, dunque cederlo diventerebbe una dolorosa necessità. Con tutti quei soldi fra le mani Cairo avrebbe la possibilità di giocarsi un unico grande ed irripetibile jolly per iscrivere il proprio nome nell'olimpo dei presidenti granata: invece di coprire con quella cifra un paio di mercati del Toro a saldo zero, potrebbe, ed io lo invito caldamente a farlo, girare un paio di quei milioni alla Fondazione Filadelfia, pareggiare le cifre messe dal Comune e dalla Regione (mantenendo quindi la vecchia parola data...) e togliere ogni dubbio ed ogni difficoltà economica al progetto di rinascita del campo Filadelfia. Gioco, partita, incontro.Senza mettere nemmeno un euro di tasca propria diventerebbe il vero vincitore dell'affaire Filadelfia, riuscendo là dove troppi finora hanno fallito. I tifosi vedrebbero di buon occhio la distrazione di parte del ricavato della cessione di Cerci per un nobile fine come la ricostruzione della Casa Granata ed il sacrificio dell'unica stella transitata in maglia granata dai tempi di Lentini avrebbe un senso per tutti o quasi. A voler essere maligni la stessa cosa si sarebbe potuta fare con la cessione di Ogbonna l'anno scorso e, doppia goduria, con i soldi della Juve si poteva comprare un Farnerud in meno ma avere già oggi un budget sicuro per il Fila.Saprà Cairo sfruttare questa seconda opportunità se mai dovesse cedere Cerci a giugno? Mi auguro di sì anche se spesso in passato il presidente non ha mai fatto quello che una logica meramente granata sembrava suggerirgli. Avrà imparato dai propri errori e dalla propria storia? In effetti sarebbe il colmo se per non aver saputo rileggere criticamente la propria storia si perdesse la possibilità di entrare in un'altra storia: quella del Toro.
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