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columnist
Nessuno si può arrabbiare se il Toro esce sconfitto dall’Olimpico contro una Roma che in casa è una schiacciasassi e nelle ultime partite ha rifilato quattro gol a Fiorentina e Villareal, non proprio delle squadrette. Ci si arrabbia invece se la questione si sposta sul come si è perso nella capitale. Perché se non è così peregrino beccarsi quattro reti dal secondo miglior attacco del campionato, lo è non riuscire a dimostrare neanche lontanamente di poter essere in partita contro i giallorossi, gli stessi, tra l'altro, sconfitti all'andata giocando una delle migliori partite della stagione.
Non esagero se affermo che ha fatto male a tanti di noi vedere questo Torello senza motivazione prostrarsi come vittima sacrificale al cospetto della squadra di Spalletti. All'Olimpico ci perdeva anche il Grande Torino, per carità, e, sebbene oggi i rapporti di forza si siano ribaltati, non è ammissibile che ci si possa macchiare di certe prestazioni del tutto prive di nerbo. Esiste una storia che contraddistingue il Torino ed un peso che la maglia granata ha ai quali chi la indossa non dovrebbe derogare mai. Mai. Ci sono club nei quali vincere è un obbligo e altri, come il nostro, dove combattere è un dovere. Firmando per il Toro si accetta una clausola non scritta che impone verso i tifosi ed il prestigio della maglia di non mollare mai, di uscire sempre dal campo senza aver nulla da rimproverarsi.
A Roma ciò non è avvenuto.
Ed è grave perché a prescindere dalla forza (indiscutibile) dell'avversario, è il segnale che la squadra non ha le giuste motivazioni. Tralascio il fatto che ogni giocatore anche solo buttando un occhio al saldo del proprio conto in banca dovrebbe trovarvi centinaia di migliaia di motivazioni per dare il massimo, ma mi chiedo come sia possibile che società e staff tecnico non sappiano toccare le corde giuste per far giocare con voglia questi ragazzi. Non ci sono obbiettivi concreti per cui lottare? Beh, non è poi così negativa la cosa! La totale assenza di pressione per raggiungere un traguardo dovrebbe tenere sgombra la mente e far giocare più in scioltezza tutti quanti, liberi di ritrovare l'originaria gioia di considerare una partita di calcio un gioco e non un mero lavoro da professionisti. Mancano tredici giornate alla fine del campionato, un'eternità che non può trasformarsi in una via crucis di obbrobriose o scialbe prestazioni. Urge quindi trovare una soluzione a questa pericolosa deriva. Una soluzione che in realtà è molto semplice e dovrebbe essere insita in ognuno dei nostri calciatori. Si chiama orgoglio…
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