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columnist
È "notizia" recente la pubblicazione sulla Gazzetta di un sondaggio demoscopico che testimonierebbe il fatto che il Torino, in questo campionato in partenza, avrebbe perso il 12% di sostenitori rispetto alla stagione precedente. Al di là del valore di questa indagine, che - per quanto possa essere stata condotta con metodi sensati - sicuramente sarà parziale e non in tutto e per tutto rappresentativa della realtà dei fatti, quel che è certo - e che tocchiamo con mano ogni giorno - è che intorno al Torino, e al brand Toro in generale, ci sia una disaffezione evidente, reale, a tratti addirittura disarmante.
Se le nuove generazioni, come trend globale, si stanno allontanando dal calcio così come eravamo soliti intenderlo, tutto questo è ancora più evidente quando si parla di Toro, che nel passaggio (da alcuni punti di vista abominevole, ma ahimé necessario in questo nostra modernità) da "tifosi" (intesi come un retaggio culturale, spesso ereditato dalla famiglia) a "fan" (intesi come effettivi appassionati e interessati alla realtà attuale) non ha fatto altro che perdere clamorosamente terreno rispetto ad altre realtà del calcio italiano.
Lo dico con grande sincerità: credere che il problema del Torino siano (soltanto) i risultati è come guardare il dito quando si indica la luna, anche perché ormai - inevitabilmente - in questo calcio iper-polarizzato e con aspirazioni da Super League, a vincere saranno sempre di più le solite due-tre, se non uno-due, e la possibilità di rivedere un giorno un giocatore in maglia granata sollevare un trofeo col proprio Club ormai è diventata talmente impalpabile da essere annoverata al rango di fantascienza.
Il Torino, però, ha dilapidato negli ultimi 25 anni abbondanti di gestione (perché il tema va ben oltre la presidenza Cairo, che peraltro ha fatto poco, anzi pochissimo, anzi quasi niente per invertire la tendenza) tutto il valore che il Toro inteso come "brand" - come entità immateriale che porta con sé un carico di valori, di storia, di tradizione, ed anche di emozioni - aveva accumulato nel corso del suo secolo di storia.
Da questo punto di vista, il Torino avrebbe un drammatico bisogno di attirare a sé un nuovo pubblico, una nuova - passatemi il termine, deformazione professionale - audience. Eppure, tutto sembra tacere su questo fronte, come dimostrano gli scarsissimi investimenti del Club sulla comunicazione digitale, sui social media, sulle attività per i giovani, sul mondo del calcio femminile (driver di marketing importantissimo del tutto ignorato dalla società).
Ho il forte timore, e lo continuerò a ripetere a costo di sembrare uno di quei vecchi pazzi che nessuno ascolta più, che tutta questa scarsa lungimiranza, questa mancanza di prospettiva, avrà un costo altissimo a medio-lungo termine, ancor più dei contratti lunghi fatti sottoscrivere a giocatori oggettivamente inadeguati o della girandola degli allenatori.
Qui non si sta indebolendo una squadra, si sta indebolendo - anzi si è già quasi rarefatto - il valore di una parola che, fino a qualche decennio fa, era un simbolo del calcio italiano e non solo. Quella parola era il Toro, ma ora dov'è?
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