columnist

Cosa resterà di noi e del calcio

Anthony Weatherill
Loquor / Torna la rubrica di Anthony Weatherill

“Quello che è incomprensibile è che ci

sia ancora qualcosa di comprensibile”

Albert Einstein

Capiterà un giorno, in un futuro molto lontano da noi, che un influente archeologo di quei tempi scoprirà una cappella risalente ai primi decenni del terzo millennio. Nella cappella sarà riscontrata la presenza di una sola bara, dal legno pregiato e dai finimenti d’oro. Ma non sarà questo a colpire l’influente archeologo e i suoi collaboratori, ma piuttosto la grande quantità di documenti cartacei e video presenti all’interno della camera funeraria. La conclusione sarà logica: ci si troverà di fronte al sepolcro di un personaggio importante. Comunque, nonostante i reperti video risulteranno abbastanza obsoleti, si comincerà un’opera di visione per appurarne il reale valore storico.

Le prime immagini riprodotte attraverso i sofisticati apparecchi video del museo di arte antica dell’epoca, saranno quelle di alcuni uomini che corrono forsennatamente alla ricerca di qualcosa. L’intuito dell’ archeologo, persona di provato talento, ci metterà poco a capire che la cosa cercata da quegli uomini è un pallone. Ma non capirà subito di trovarsi davanti ad un gioco, perché le espressioni dei visi e i movimenti del corpo di quegli uomini gli apparirà molto aggressivo, quindi inizialmente giungerà alla conclusione di trovarsi di fronte ad una qualche forma di guerra particolarmente arcaica. Queste immagini saranno inframmezzate da immagini di uomini vestiti sovente di scuro(desterà sorpresa la totale assenza di donne) seduti intorno ad un tavolo, in grandi sale con file di poltrone orizzontali e in piedi davanti a persone con cui parlano attraverso uno strano oggetto tenuto in mano(un assistente dell’archeologo scoprirà essere un microfono, un antichissimo strumento per trasformare le onde sonore in segnali elettrici). Sia la lingua parlata nei video, sia quella scritta ritrovata in vari documenti sarà stata decodificata da tempo, e sarà stata rubricata come idioma “Italia”, un qualcosa che si parlava diffusamente nelle terre dove sarà rinvenuta la cappella. Saranno ritrovati dei diari, proprio accanto alla bara, dove saranno annotate, evidentemente solo dal defunto vista l’uniformità dello stile di scrittura, delle frasi virgolettate. “Presentato un esposto alla Fgci nel 2010, per verificare la fondatezza della sentenza del maxiprocesso del 2006. Per giudicare “Calciopoli” ci sono voluti 4 mesi, e con pesanti condanne, per rispondere ad un esposto di otto pagine ci hanno messo 14 mesi”. All’archeologo e al suo staff queste righe avranno le sembianze di un vero e proprio rompicapo, affascinante da risolvere. Allora decideranno di seguirne il filo, attraverso i diari e i numerosi reperti trovati.

Desterà particolare impressione un passaggio, sottolineato più volte in rosso, di uno dei diari:”invitavano alla fiducia in un sistema di giustizia sportiva che, in assenza di prove riscontrate, si accontenta di celebrare processi sommari con tempi asimmetrici, caso per caso, filone per filone, forse persona per persona o peggio società per società, e con modalità barbare che non trovano cittadinanza in democrazie”. Si faticherà a capire il legame tra democrazia e giustizia sportiva, perché qualcosa del greco antico sarà arrivato anche a questi lontani posteri. E a tutti questi posteri sarà chiara la traduzione di democrazia, ossia “governo del popolo”. Un governo esercitato attraverso una votazione di rappresentanti, naturale esercizio elettorale per sancire il controllo del popolo sulle istituzioni. E la domanda sorgerà spontanea: ma la giustizia sportiva era soggetta al controllo del popolo? E cosa era la giustizia sportiva? Si aprirà un dibattito, come sempre succede nelle vicende umane, dal sapore vagamente filosofico, su cosa voglia dire esattamente giustizia. Forse qualcuno giungerà alla conclusione che fare giustizia non è semplicemente stabilire delle colpe e delle conseguenti pene, ma anche ristabilire un corso legale delle vicende quotidiane. A quel tempo sarà stata decodificata anche la parola “sport”, declinata nella sua etimologia originale come esercizio svolto per puro divertimento. La confusione, a quel punto, regnerà sovrana all’interno della cappella, ma un altro passaggio dei diari diraderà un po’ le nebbie e darà entusiasmo scientifico:”il calcio sicuramente non è solo un gioco. Oggi è un’industria che ha la potenzialità di influenzare sia in positivo che in negativo”.

L’archeologo, a questo punto, comincerà a capire che le immagini di quegli uomini all’inseguimento forsennato di un pallone, non era affatto una forma di guerra primitiva ma un gioco. Uno sport. Ma è davvero possibile che quei volti stravolti stessero provando del puro divertimento? Le nebbie erano di nuovo scese all’improvviso, portando inquietudine e paura di fraintendere quelle tracce di passato remoto appena scoperte. In una pagina di un diario sarà ritrovata, incollata, una fotografia di gente urlante e agitante delle bandiere con sotto un commento incomprensibile:”tifosi…”. Leggendo questa parola, gli uomini del futuro rimarranno un po’ sconcertati, perché non troveranno nei loro archivi etimologici nessun aiuto per cercare di comprenderne il senso, se non una traccia in una ricerca di tipo medico, dove la parola tifo verrà associata ad una malattia infettiva. Inoltre la punteggiatura usata lascerà chiaramente intendere una qualche forma di giudizio, difficile da capire se positivo o negativo, da parte dell’autore dei diari.

Ma andando avanti nella lettura ancora una volta una frase getterà ombre sul già difficile tentativo di una ricostruzione di senso:”con tutti ho rapporti di educazione e civiltà: devono rimanere tali e sarebbe bello se si estendessero anche ai tifosi. Non siamo in guerra, il calcio è un grande spettacolo di sport”. A nessuno sfuggirà la mancanza di nesso logico in tali parole: perché paventare una guerra, se in quel tempo remoto dell’inizio del terzo millennio il calcio era sport e spettacolo? E poi l’autore di quella frase era come se si fosse posto in un piano morale rialzato rispetto a questi tifosi probabilmente interessati da una malattia infettiva, auspicando che potessero diventare come lui, evidentemente guarito da questa malattia. Quest’ultima ipotesi porterà una ventata di ottimismo all’interno della cappella, perché ciò da cui si è guariti nel passato si può guarire nel presente e anche nel futuro. Ma l’entusiasmo durerà poco, il tempo della traduzione di una nuova frase scritta in idioma “Italia”:”lo stile è qualcosa che gli altri hanno detto di noi, ma non ho mai capito cosa sia lo stile. Lo stile per noi è vincere”. L’archeologo penserà, a questo punto, che l’autore di queste frasi poteva avere dei problemi di dissociazione psichiatrica, dato che lo stile, sempre secondo gli archivi etimologici, era qualcosa che aiutava questi avi persi nel tempo a definire i valori, cioè gli ideali orientanti le loro scelte morali. Mentre la parola vincere sarà anche allora intrinsecamente legata a sconfiggere, uno dei suoi sinonimi più celebri. E sarà chiaro a tutti, in quel tempo, che avere adottato l’espressione “avere la meglio” era stata sicuramente una felice idea del futuro, dato l’idea di sopraffazione dei termini vincere e sconfiggere. Quindi non deve sorprendere se i posteri nella cappella avranno smorfie di riprovazione di fronte ad una sentenza precisa sancita sui diari:”abbiamo una dimensione oramai che non è più ludica, del divertimento e dell’hobby, ma da vera grande azienda”. Difficile non capire le perplessità di questi uomini del futuro di fronte ad una tale commistione ideologica tra gioco e affari.

“Nel calcio è necessario uno sforzo concertato:violenza, stadi, protezione dei marchi. Ma non abbiamo nemmeno un ministro dello sport”, sarà oggetto di dibattito tra gli scienziati storici di quel tempo, visto che la parola “ministro” sarà tradotta come capo di qualcosa. E come è stato possibile far funzionare un organismo sociale senza un capo? Domanda che non avrà risposta, come a nessuno sarà possibile districarsi tra frammenti di inchieste di doping, presunti rapporti con la malavita organizzata(definizione davvero impossibile da capire per i posteri), polemiche su scudetti revocati ma messi in mostra in ogni occasione, favoritismi evidenti dal Credito Sportivo(ma cosa era il credito Sportivo? Si chiederanno). Ma sotto tutte le frasi virgolettate si riuscirà a tradurre una nota finale dell’autore dei diari:”le tue considerazioni, caro Andrea Agnelli, illuminano le mie giornate. Le rileggo come fossero versi religiosi su cui meditare. Visto il grande affetto che per te nutro, e che nutrivo anche verso il tuo adorato zio Gianni, voglio rassicurarti: non c’è un ministro dello sport ma c’è il Coni, che mi onoro di presiedere a nome di tutto lo sport italiano. Tu sai che su di me potrai sempre contare, in silenzio e in assenso”. L’archeologo del futuro chiuderà l’ultima pagina dei diari ebbro da tutto il mistero in esso inoculato. E in quel momento un suo collaboratore gli dirà che hanno pulito la targa recante il nome del defunto:”Qui giace Giovanni Malagò. Venditore di automobili, amico della famiglia Agnelli, sciupa femmine, socio di Montezemolo, azionista di banche e utility, consigliere di amministrazione di varie società e organizzazioni benefiche, presidente del circolo Aniene, organizzatore di tornei di tennis e di calcio a 5, esperto governativo per il Made in Italy, organizzatore dei mondiali di nuoto e di pallavolo, presidente del Coni”. Gli uomini del futuro rimarranno senza parole e si inchineranno di fronte la targa commemorativa. Anche nel futuro insegneranno che di fronte al mistero è così che si fa.

Di Anthony Weatherill

(ha collaborato Carmelo Pennisi)