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Loquor

Cosa vuol fare John Elkann della Ferrari?

Carmelo Pennisi
Carmelo Pennisi Columnist 
Torna l'appuntamento con 'Loquor', la rubrica di Carmelo Pennisi

“Non si può descrivere la passione, la si può solo vivere”. Enzo Ferrari

Enzo Ferrari non era un malinconico e nemmeno tanto incline alla manifestazione dei sentimenti; come tutti quelli abituati alla gloria e alla tragedia aveva sviluppato un cinismo impermeabile a qualsiasi manifestazione delle sue reali emozioni. Ma era una persona “risorgimentale”, venuto al mondo alla fine dell’ottocento, e avendo perso l’amato fratello Dino sul fronte della I Guerra Mondiale, l’epopea dell’unificazione dell’Italia e dell’orgoglio di essere stata finalmente ottenuta, era qualcosa custodita gelosamente nel suo cuore e nella sua mente, e forse fu proprio per questo che nel 1963 mando letteralmente a quel paese i manager della Ford, che si erano presentati a Maranello per firmare l’accordo di acquisizione della sua azienda da parte della celebre casa automobilistica di Detroit.

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Il Drake si era accorto, leggendo le varie clausole del pur ricco contratto, che riguardo la squadra corse tutto in realtà, dal momento della firma, sarebbe stato deciso a “Motor City”. Persino la permanenza a Maranello avrebbe potuto essere messa in discussione, e questo proprio Ferrari non avrebbe mai potuto accettarlo. Con una penna ad inchiostro viola, invece di siglare il contratto, il patron della “Rossa” commentò così a margine dell’allegato 17 del contratto inviato dalla Ford:”no, non ci siamo”! La casa automobilistica di Maranello in quel momento era sull’orlo del baratro economico, per questo il valore del diniego di Ferrari di consegnare un pezzo di storia dell’Italia all’America avrà imperituro significato immenso nella storia del nostro Paese. Con il cuore in tumulto per il rischio che stava correndo la sua creatura, qualche settimana più tardi Ferrari non esitò un secondo a partire per Mantova per rendere omaggio alle esequie del pilota da lui più amato, e a parer mio il pilota automobilistico più grande di tutti i tempi: Tazio Nuvolari.

“Nella fretta(di arrivare a Mantova)-raccontò in seguito Ferrari- mi persi in un dedalo di strade sconosciute della città. Scesi di macchina, chiesi ad un negozio di stagnino la via per la villa di Nuvolari. Ne uscì un anziano operaio, che prima di rispondermi fece un giro intorno alla macchina, per leggere la targa. Capì. Mi prese una mano e la strinse  con calore: “grazie di essere venuto –bisbigliò commosso-come quello là non ne nasceranno più”.”La storia racconta come poi nel 1969 l’Avvocato Gianni Agnelli salvò economicamente la Ferrari acquisendone gran parte del pacchetto azionario(il 50%, con dentro l’accordo di prelazione di comprare un altro 40% alla morte del Drake, cosa che avverrà nel 1988. Il restante 10% resterà per sempre nella mani di Piero Lardi Ferrari). Grazie ai soldi della Fiat vengono fatti nuovi investimenti(costruzione della pista di Fiorano ed espansione dello stabilimento di Maranello) e la gloria delle “Rosse” sui circuiti di tutto il mondo cresce. Il marchio del “Cavallino Rampante” non è solo un brand di lusso foriero di facili ricavi su chi ha voglia di esistenzialismo esclusivo, è il cuore pulsante di una italianità capace di sorprendere il mondo continuamente.

All’estero non riescono ancora a capire come noi si sia potuto costruire un mito capace, unici nell’averlo fatto, di poter non solo stare alla pari dello strapotere anglosassone(in cui ci sono da includere anche i tedeschi), ma addirittura di sopraffarli. La Ferrari è uno di quei misteri a non sfuggire ai sensi, a non aver bisogno di una fede: la Ferrari la tocchi, la senti, la vedi, la odori. E c’è di più: la “Rossa” è oggetto di un autentico amore portato avanti da un intero popolo da generazioni. Enzo Ferrari, da vero risorgimentale, è riuscito a creare finalmente una cosa su cui nessun italiano si è mai diviso, e mai si dividerà. La marea rossa festante dietro le spalle del “selfie” di Charles Leclerc, dopo la vittoria dell’ultimo “Gran Premio di Monza”, è l’ennesima dimostrazione di questo infinito amore. Quando corre la Ferrari finiscono i nostri eterni “campanili”, e nasce l’Italia. Ogni volta è così, ed è quasi un miracolo capace di far sorridere anche il cuore più cinico. L’ultimo a vincere un mondiale di “Formula 1” alla guida di un bolide di Maranello è stato Kimi Raikkonen nel 2007, da quel momento sono state solo umiliazioni e sconfitte. Troppe, anche per un popolo educato per cultura, da secoli, al culto della sopportazione. Noi italiani sappiamo aspettare come pochi, ma arriva un momento in cui le cose devono accadere.

La notizia del “matrimonio” tra Adrian Newey e la Aston Martin, spiazza e sgretola la speranza dei tifosi della Casa di Maranello di vedere il genio di Stratford-Upon-Time assunto da John Elkann e andare così concretamente a caccia del sospirato titolo mondiale piloti di “Formula 1”. Ma l’erede designato a suo tempo dall’Avvocato alla guida di “Exor”, non ha mosso un dito per far accadere l’incrocio delle strade di Newey e della Ferrari. Eppure avrebbe dovuto fare di tutto, e anche di più, affinché questa cosa accadesse. L’erede dell’impero della famiglia Agnelli appare ancora una volta indifferente al destino del nostro Paese, ogni sua azione manifesta semplicemente il modus operandi del ragioniere che tira una linea sotto la voce “bilancio”, e se ne fotte(perdonate il francesismo) del sentimento della gloria e dell’epica. Da tempo non c’è più poesia dalle nostre parti, e la conseguenza sono i nostri sentimenti divenuti progressivamente più straccioni, involgariti dall’assenza di melodia nel cuore. La nostra classe dirigente ha smesso di osare, noi abbiamo smesso di osare, eppure basta una vittoria di Jannik Sinner per riaccendere una passione patriottica evidentemente covata sottocenere.

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Viviamo in una costante atmosfera tra il lutto e il “reducismo”, e abbiamo persino perduto la voglia di provare nostalgia, ovvero quella consapevolezza di un tempo bello oramai disperso ma che si è vissuto. Parliamo ossessivamente di futuro, ma in realtà non sappiamo in quale modo acchiapparlo. Lo sport è un cespite dell’anima di una comunità, a volte colpevolmente confuso come un banale sciovinismo. Pensare, nell’era dell’elettronica, che possa essere Lewis Hamilton il risolutore a togliere le castagne dal fuoco e condurre in auge il “Cavallino Rampante” nelle corse, è commettere lo stesso errore di ritenere l’allenatore di una squadra di calcio, e non i giocatori, l’antidoto di ogni sconfitta. A Napoli sono giustamente entusiasti per l’ingaggio di Antonio Conte, ma dovrebbero essere ancora più entusiasti per la dispendiosa campagna acquisti autorizzata da Aurelio De Laurentiis. Lo sport non è né logica di un rigattiere, né suggestione da marketing, è qualcosa che va oltre e si incastona nei significati ultimi dell’esistenza. Lo sport non può rimanere senza frutti, come il noto fico evangelico poi maledetto da Gesù di Nazareth, e i frutti non sono mai il tanto denaro che riesce a generare. Lo sport è il caleidoscopio dei sentimenti di una comunità, sentimenti attesi e collegati con il desiderio sempre presente nella storia. E non si sta parlando di un sentimento collegato esclusivamente al presente, ma di un sentimento eterno.

Enzo Ferrari si infastidiva quando in una vittoria si parlava solo del pilota, perché in quella vittoria c’erano anche tutti quelli che avevano lavorato intorno all’automobile, quest’ultima   simbolo analogo ad una maglia di una squadra di calcio. Per chi presiede la Ferrari, riportarla in alto e rispettare la sua storia sono gli unici frutti che ci si aspetta da lui/lei. Non aver portato Adrian Newey in Italia è stato come tradire un desiderio, l’aver buttato via il canovaccio vestito di rosso, incuranti della speranza che ancora continua ad albergare in un popolo quanto mai prostrato. La nostra elite pare averci dimenticato, ed è questa la sensazione assai sgradevole, che ci rende tristi. Poi vedi un film delizioso come “Le Mans 66”, in cui gli americani nel tentativo di raccontare una delle tante epopee della Ford, finiscono per risollevare il tuo umore: “dobbiamo pensare come la Ferrari. La Ferrari passerà alla storia come la più grande fabbrica di automobili di tutti i tempi. Per quello che le sue macchine rappresentano: la vittoria. La Ferrari vince a Le Mans e  la gente vuole essere parte di questa vittoria. Enzo ha speso fino all’ultima lira a caccia della perfezione, e sa una cosa? C’è riuscito”. Dobbiamo tornare a pensare come la Ferrari. Dobbiamo tornare a pensare di poter vincere. Dobbiamo tornare a pensare di essere un Paese vitale. Quel giorno, se arriverà, sarà un bel giorno.

Scrittore, sceneggiatore e regista. Tifosissimo granata e già coautore con il compianto Anthony Weatherill della rubrica “Loquor” su Toro News che in suo onore e ricordo continua a curare. Annovera, tra le sue numerose opere e sceneggiature, quella del film “Ora e per sempre”, in memoria del Grande Torino.

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