Io non sono triste per non veder vincere uno scudetto, perché nel fondo del mio animo c’è sempre la speranza che un giorno i pianeti impazziscano e si allineino in modo tale da farcelo cucire al patto. Io sono triste perché non ho visto QUELLO scudetto, quello del 1976. Le foto, i filmati, le testimonianze riempiono il cuore di amore, gioia e dolcezza, figuriamoci vivere quello spettacolo dal vivo. Forse il mio corpo non avrebbe potuto contenere la gioiosa tensione mentre ci si avvicinava all’appuntamento col destino. Quando sono agitato, inizio a vestirmi duemila ore prima, quindi alla vigilia del 16 maggio sarei andato già a dormire in tenuta da stadio. Un passo dopo l’altro verso il Comunale, dentro una marea di gente col mio stesso identico umore e la divisa dello stesso colore, mi sarei sentito sempre più vicino all’appuntamento con la storia, al momento dell’unione fra la maglia col colore più bello che ci sia e un triangolino tricolore.
CULTO
16 Maggio 1976: col cuore in mano
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Il Comunale è così granata che lo si percepisce anche nelle foto in bianco e nero. “Vedi” il colore, sai che è lì che pulsa, respira, vive. Pensate stare lì in mezzo, travolti da tutto quel bello sugli spalti sotto un sole caldissimo che vuole assistere anche lui a quella festa che arriva ventisette anni dopo sappiamo tutti cosa, ma non osiamo dirlo. Il sudore riga la fronte, la schiena, ma non smettiamo di essere uno vicino all’altro. Immagino gente che le ha provate tutte per essere lì. Una persona a cui voglio molto bene finse di ricevere una telefonata a un matrimonio e scappò con una scusa davanti agli occhi increduli di un paio di invitati. Questa persona, quando Pulici decise di colpire di testa un pallone che volava a pochi centimetri da terra con un tuffo incredibile, si ritrovò proprio uno di quei due invitati a pochi metri da lui, in mezzo all’esultanza. Risultato: risero e si abbracciarono.
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Io credo che noi viviamo nell’universo sbagliato. Esiste un altro universo in cui il Quattro Maggio splendeva il sole, il tiro di Sordo ha colpito la traversa e poi è finito in rete, Barbaresco ha dato per buono il gol di Agroppi a Genova e Maxi Lopez ci ha portato ai supplementari in Toro-Zenit. In quell’universo Mozzini, di testa, la mette in angolo e vinciamo lo scudetto con quindici vittorie in casa su quindici. Nel nostro, invece, Mozzini se la butta dentro di testa e dobbiamo impazzire aspettando che a Perugia finisca. Nonostante questo momento quasi folle, anche se il nostro resta sempre l’universo sbagliato, gli dei del calcio, per una volta, si sono limitati a qualche patema d’animo, ma non potevano toglierci lo scudetto anche perché, citando un pezzo di Giglio Panza, se il destino si fosse materializzato tutti i presenti avrebbero voluto strozzarlo.
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E poi la festa, nessuno che entra in campo perché vuole godersi il momento tanto atteso come richiesto da alcuni volantini che giravano in città. Nessuna invasione, vogliamo rimanere sugli spalti e stare il più possibile con la squadra che inizia a girare sulla pista, portando in trionfo Radice o alzando un enorme scudettone. Godersela, cantare, urlare, riempirsi gli occhi dei nostri giocatori felici e dei nostri fratelli felici, mentre un Pianelli commosso dice di aver sempre creduto allo scudetto, ma di non averlo potuto affermare per scaramanzia. Quello scudetto ora ce l’ha sul gessato di ordinanza. Sta benissimo, come starà benissimo sulla maglia granata. Non averne vinti di più è un delitto estetico.
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C’è il “Dio bono” di Radice, ma c’è anche il momento in cui, di colpo, Gigi capisce che abbiamo vinto e finalmente si scioglie parlando della gente festante attorno al campo. C’è la salita a Superga tutti insieme, finché il percorso ci può contenere. C’è una Torino molto lontana da quella infighettita e un po’ oca di oggi, che è pura bellezza ma con poco cuore. C’è una Torino difficile, divorata dagli anni di piombo, dura, operaia che si ritrova colorata da una marea granata che la rende semplicemente stupenda, verace, da impazzire. Non avremmo mai abbastanza parole per dirvi grazie. Non ne avrò mai abbastanza per dire quanto avrei voluto esserci. Sarei sicuramente più vecchio, ma tanto inizio a esserlo anche ora e non è una bella cosa. Però sarei stato lì, avrei vissuto e avrei sempre avuto quel ricordo appuntato sul cuore a farmi compagnia.
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Classe 1979, tifoso del Toro dal 1985 grazie a Junior (o meglio, a una sua figurina). Il primo ricordo un gol di Pusceddu a San Siro, la prima incazzatura l’eliminazione col Tirol, nutro un culto laico per Policano, Lentini e…Marinelli. A volte penso alla traversa di Sordo e capisco che non mi è ancora passata.
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