I piani erano altri, il pezzo aveva totalmente un altro argomento. Poi esistono le coincidenze: oggi è il compleanno di Emiliano Mondonico. Allora si accantona una storia che si può raccontare in un altro momento e si passa la linea al cuore, si va a braccio, a ruota libera, sapendo che non si sarà mai esaustivi perché il “Mondo” non può essere limitato a poche righe. Anzi, non può essere racchiuso neanche in molte, perché appena si finisce di raccontare una cosa ne esce subito un’altra ancora più bella, più toccante, più divertente.
Culto
Buon compleanno, Emiliano
Oggi Emiliano Mondonico avrebbe compiuto 75 anni. Francesco Bugnone lo ricorda a suo modo nel nuovo appuntamento con Culto
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Emiliano Mondonico è stato l’allenatore del Toro della mia preadolescenza, quello che è andato a tre legni da un trionfo meraviglioso, che ha alzato la coppa contro tutti, che faceva dormire poco tranquilli i cosiddetti cugini alla vigilia dei derby. Grazie a quel Toro potevo andare a testa alta in una classe, anzi, in una scuola di gobbi (a un certo punto eravamo tre granata in tutto l’istituto). E’ il Toro della sedia alzata, anche se verso quel gesto ho una sensazione ambivalente. Da un lato è un’immagine iconica, che carica, immortale. Dall’altro lato c’è sempre la paura di ridurre una persona immensa a un gesto solo, per quanto stupendo. Un gesto di cui, tra l’altro, il mister si sentì subito in imbarazzo quando si voltò e vide dei ragazzi disabili nella tribuna dietro di lui. La sedia, sì, ma c’è anche tutto il resto.
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C’è la furia, quella che dopo la finale di Coppa Italia contro la Roma lo ha portato quasi ad arrivare allo scontro fisico nella pancia dell’Olimpico con Lido Vieri a evitare il peggio. C’è il sorriso quando, con lo stadio ormai popolato solo dai nostri nel settore ospiti, è uscito sorridente con la coppa in mano per mostrarla ai tifosi, perché era nostra anche se avevano cercato di portarcela via in tutti i modi. Ci sono i denti mostrati agli avversari quando serviva, ma anche a noi tifosi. Per esempio dopo il derby vinto 2-0 quando tirò giustamente fuori un macigno che gli era rimasto nella scarpa. Sì, perché avevamo fatto la bella pensata di fischiare dopo la vittoria contro il Bk Copenaghen che ci portava in una semifinale europea dopo decenni. Rileggiamola bene questa frase, abbiamo fischiato dopo una vittoria che ci ha regalato qualcosa che ci mancava dal 1965, giusto per riflettere su quanto siamo coglioni alle volte, per poi piangere e rimpiangere dopo, quando è tardi. C’è anche lo spendersi, e non solo in senso metaforico, per un Toro morente, che, nell’indifferenza totale di una città che in queste circostanze fa semplicemente ridere, nel 1994 ci stava lasciando senza nessun Lodo Petrucci a fare da paracadute. Mondonico è stato il collante, il volto, la nostra faccia in quel momento sportivamente complicatissimo.
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Pensavo che non avrei avuto altro allenatore al di fuori di Mondo, invece abbiamo dovuto salutarlo un pomeriggio di fine aprile del 1994 contro il Foggia. Alla mole di striscioni e di amore riversato su di lui a inizio partita purtroppo seguì una sconfitta dolorosissima per 4-1 e spiegabile a posteriori: quella squadra aveva dato più di quanto avesse nella pancia in un anno in cui sembrava che la saracinesca si sarebbe chiusa da un momento all’altro, prima o poi si paga, il crollo era inevitabile. Peccato che fosse arrivato nel giorno sbagliato. Era un addio che sapeva di arrivederci: eravamo tutti convinti che prima o poi sarebbe tornato. Lo fece da avversario con l’Atalanta, accolto come meritava in una gara in cui un Toro troppo brutto per essere Toro perse di misura grazie a un’astuta deviazione di Daniele Fortunato, uno dei “suoi”. Poi tornò davvero.
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Non si dovrebbe mai tornare dove si è stati bene, però è facile dirlo adesso. Come fai a dire no quando ti chiedono di venirci a riportare dove saremmo dovuti sempre stare, come fai a dirlo quando te lo chiede il “tuo” Lentini. Non si può e allora per amore si può tornare in un Toro sempre meno granata e sempre più grigio, asciugargli le lacrime dello spareggio contro il Perugia e rimetterlo in piedi. Fare il proprio, salire, anche se in un clima di merda, regalandoci anche la più bella frase sul Toro mai detta dopo il 3-2 al Napoli. La gioia e l’orgoglio di essere seduto in panchina la sera del cinquantenne di Superga. Il suddetto clima l’anno dopo peggiorerà e ci porterà a dirgli l’impensabile durante un pomeriggio di pioggia dopo un pareggio contro il Milan, qualcosa di cui vergognarci che ha aperto una ferita che solo gli anni, il tempo e, soprattutto, l’adoperarsi di qualcuno ha ricucito. La cicatrice resta, ma sono rispuntati gli abbracci, come quando è venuto a Torino da tecnico dell’Albinoleffe e non si capiva se fossimo più emozionati noi o lui. Forse tutti e due insieme.
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Emiliano mi ha costretto a tifare per qualsiasi squadra lo abbia ingaggiato dopo di noi. Ho tifato il Cosenza, dove ha ritrovato ancora una volta Lentini e pare sia stato protagonista di un episodio straordinario con Daniele Fortunato: dopo una forte nevicata si decise di fare comunque allenamento, ma la macchina si fece una bella pattinata per fortuna senza conseguenze. Due lombardi che trovano la neve in Calabria e per poco non combinano un guaio non è male. Ho tifato persino per il Novara, dimenticando quanto mi stesse antipatico, e non parliamo della Viola, con quel doppio spareggio soffertissimo contro il Perugia deciso da due reti di Fantini e lui a correre verso gli spogliatoi con Riganò che non riesce a trattenerlo, per assaporare a modo suo la promozione della sua squadra del cuore.
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Ho avuto due fortune. Conoscere Fabio Milano e conoscere Clara Mondonico. Fabio, da amico di Emiliano, gli continua a rendere omaggio con un gran numero di filmati e di interviste che ci fanno andare al di là della persona seduta in panchina, ma dentro il cuore dell’uomo. Clara continua a raccontarci di suo papà, a farci scoprire le sue mille sfaccettature, a parlarne in un modo che, a un certo punto, sembra non ci sia più lei, ma direttamente lui davanti a te. Ed è bellissimo. Così come è bello che i “suoi” giocatori del ’92 siano ancora uniti, si sentano in chat e tutti sono ancora fedeli al loro mister, lo si vede da come ne parlano. Hanno avuto delle buone o grandi carriere, ma il loro zenit è stato con lui, è stato con noi. Impossibile non essere legati. Oggi Daniele Fortunato ha scritto che era più facile essere un suo amico che un suo giocatore ed è una frase bellissima. Una frase bellissima che acuisce il rimpianto per non aver potuto conoscere il mister di persona, ma, al tempo stesso, mi fa sentire privilegiato per essere entrato in contatto con persone che mi hanno regalato la possibilità di capire meglio il “Mondo”, i suoi valori, i suoi principi, il suo impegno per il sociale, il suo essere un grande papà. Buon compleanno, Emiliano.
“Il Toro è un amico, è come affronti un amico che ogni tanto ci ritroviamo? E’ chiaro che vengono a trovarmi a casa mia. Non sarà mai un nemico, non sarà mai un avversario, come non lo sarà mai l’Atalanta o la Fiorentina tanto per fare dei nomi a caso. Un amico col quale ci giocheremo, come ci si trova con gli amici alla partita a scopa tentandole tutte per vincere e alla fine…è chiaro che quando finirà la partita chi perderà sicuramente dovrà subire i rimbrotti dell’altro però sicuramente non verrà meno l’amicizia come è giusto che sia”
Classe 1979, tifoso del Toro dal 1985 grazie a Junior (o meglio, a una sua figurina). Il primo ricordo un gol di Pusceddu a San Siro, la prima incazzatura l’eliminazione col Tirol, nutro un culto laico per Policano, Lentini e…Marinelli. A volte penso alla traversa di Sordo e capisco che non mi è ancora passata.
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