Parlare del Grande Torino è difficile. Negli episodi di Culto del Quattro Maggio ho sfiorato l’argomento. Il primo anno ho parlato della partita del Cinquantenario di Superga, dodici mesi fa di coloro che restavano (Novo, Tomà, Susanna Egri, Vittorio Pozzo e così via). Stavolta volevo parlare proprio di Loro, ma, com’è detto, è difficile.
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Inno alla vita
Torna "Culto", la rubrica di Francesco Bugnone: "Guardate la gente, guardatela dentro il Fila. Sono stipati, lo stadio sembra esplodere, sorridono tutti..."
È difficile perché ci sono voci che lo hanno già fatto in modo inarrivabile. Cosa c’è da dire di più e di meglio del Grande Torino che non abbia detto Franco Ossola? Oppure Alberto Manassero? O Federico Buffa?
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È difficile perché gli episodi a cui attingere sono numerosissimi. È come entrare in un negozio di gelati con cento gusti e non riuscire a scegliere perché sono tutti buoni e le combinazioni sono infinite. Penso di parlare della visita al Fila del Bologna con la porta ancora intonsa che, a un certo punto, sembra davvero insuperabile quando il numero uno Vanz para un rigore a Grezar, ma poi finirà con prenderne quattro. Sto per scrivere, ma poi mi viene in mente il 10-0 contro l’Alessandria. Quindi è la volta del sette a uno in casa della Roma, in vantaggio con Amadei, ma travolta nell’ultima mezzora nonostante Valentino Mazzola fosse zoppo. Uno zoppo che ha fatto tripletta. Sì, sembra proprio l’argomento giusto, ma poi la testa torna al Filadelfia, ospitiamo la Lazio, sotto di tre dopo 20’ riusciamo a ribaltarla aggiudicandoci lo scudetto con cinque turni di anticipo. E così via all’infinito.
È difficile perché il Quattro Maggio è giorno che colpisce duro, è il nostro Venerdì Santo. Il Quattro Maggio è successo qualcosa che non sarebbe dovuto succedere, è dolore, è Pozzo che riconosce le salme col cuore gonfio di dolore, è Susanna Egri che scopre all’improvviso che è finito tutto sentendo gente che ne parla per strada, è un pianto che attraversa lo stivale, fra le famiglie che hanno perso i loro cari e i tifosi che hanno perso i loro eroi. “Un crepuscolo durato tutto il giorno, una malinconia da morire” come si sente nei primi secondi della Settimana Incom dedicata a quella tragedia.
È difficile, ma è doveroso provarci anche se non ci si sente degni di farlo, perché, ed è un paradosso dirlo in una giornata in cui si commemora un dramma, il Grande Torino è un inno alla vita, uno dei più poderosi.
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Provate a immaginare una guerra appena finita che ha lacerato l’anima di tutti, provate a immaginare la fame di vita delle persone desiderose di riassaporare quella bellezza assoluta che si chiama normalità. Guardare verso il cielo senza la paura di vedere un aereo che butta bombe, andare a dormire senza essere svegliati da sirene d’allarme. Ritornare allo stadio, a vedere le partite. Guardate la gente, guardatela dentro il Fila. Sono stipati, lo stadio sembra esplodere, sorridono tutti. I corpi, i visi, i colori.
Poi dagli spogliatoi emergono Loro, ancora una volta, accolti da un boato. Lo scudetto sulla maglia granata è un abbinamento perfetto. Escono correndo, concentrati, ma comunque sereni. Capitan Mazzola, Loik, Rigamonti, Ossola, poi via via tutti gli altri. Ogni benedetta domenica. L’entusiasmo di quella squadra coinvolge tutti gli appassionati, non solo i nostri tifosi. E’ qualcosa di bello da guardare, da vivere, da leggere sui giornali. Ogni pallone toccato, ogni gol è un centimetro che allontana da ricordi orrendi mentre ci si lascia invadere semplicemente dal bello. Sono fantastici i filmati d’epoca quando ci fanno vedere i loro primi piani dei calciatori, che bello vederli quando sorridono prima di entusiasmare le folle in stadi dove non entra nemmeno uno spillo. La tromba di Bolmida suona, la squadra va all’arrembaggio. Che meraviglia.
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È questo che vedo quando penso al Grande Torino e lo vedo anche se ho sempre stampato in testa quel giorno di pioggia e che cosa è successo sulla collina. Vedo una bella giornata, il cielo terso, granata ovunque, il verde dell’erba e loro che giocano lasciando partire una saetta che ci attraversa tutti e arriva fino a qui, fino ai giorni nostri. Continuiamo a raccontare e ad amare, è il mito che ci tramandiamo benché incarnato da esseri umani reali. E’ un mito che, il giorno di San Valentino, ci fa pensare prima al Capitano che alla festa degli innamorati o che ci fa ricordare il già citato dieci a zero quando viene nominata l’Alessandria o mille altri esempi che dimostrano quanto l’espressione “Grande Torino per sempre” sia vera e non retorica. Il Grande Torino ci ha fatto vedere quanto possa essere meravigliosa la nostra esistenza, continuiamo ad alimentare il suo fuoco, a cantarne le gesta, a suonare la sua musica come se fossero le note di quel jazz che Virgilio Maroso, appassionato del genere, batteva sui tasti del suo pianoforte. Glielo dobbiamo ed è un dovere dolce, perché li amiamo.
Classe 1979, tifoso del Toro dal 1985 grazie a Junior (o meglio, a una sua figurina). Il primo ricordo un gol di Pusceddu a San Siro, la prima incazzatura l’eliminazione col Tirol, nutro un culto laico per Policano, Lentini e…Marinelli. A volte penso alla traversa di Sordo e capisco che non mi è ancora passata.
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