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La Grande Bellezza

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Culto / Torna la rubrica di Francesco Bugnone. Protagonista Rafael Martin Vazquez
Francesco Bugnone
Francesco Bugnone Columnist 

Le amichevoli precampionato sono una rottura di scatole. Se vinci, ti fa piacere, ma non puoi banfare più di tanto, perché sono gare che non contano nulla. Se perdi, ti girano comunque le palle, perché il Toro che perde non è mai bello. MAI. L’ideale è un bel pareggio in rimonta, non perdi e poi, come diceva Dino Viola, “è meglio pareggiare che essere pareggiati”. Nell’estate del 1990, ho undici anni e questi ragionamenti filosofici, grazie al cielo, non li faccio, quindi il Memorial Baretti, una delle poche occasioni per vedere il Toro in televisione, lo aspetto con la trepidazione delle partite migliori, delle partite vere. E faccio bene, chiunque lo abbia fatto quell’estate ha fatto bene, perché all’ultimo minuto dell’ultima partita di quel trofeo estivo, entreremo tutti in contatto col concetto di bellezza e il concetto di bellezza non aspetta che la gara valga due punti, arriva e basta.

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I piedi da cui nasce quella grande bellezza non sono piedi banali, anzi. Sono piedi che, in quella seconda metà di agosto, appartengono al giocatore che simboleggia come per il Toro qualcosa sia cambiato, come non sia una semplice neopromossa, ma una squadra che può e deve lottare per l’Europa. Sono i piedi di Rafael Martin Vazquez. Comprare Martin Vazquez è qualcosa di pazzesco, perché, ai tempi, andare a prendere un giocatore del Real Madrid, e facente parte della “quinta del Buitre”, nel pieno della carriera non era proprio cosa da tutti, anzi era cosa da pochi, pochissimi, praticamente nessuno. Il Toro lo fa. Lo spagnolo è il migliore della Spagna a Italia ’90, nonostante l’eliminazione agli ottavi contro la Jugoslavia (un mix di sfiga e Dragan Stojkovic). Quando arriva a Torino, passa dalla barba ai baffoni ed è pronto a far sognare un pubblico che pende dai suoi piedi. Forse il suo biennio non andrà totalmente come nelle aspettative, ma ai tempi non lo sappiamo ancora e a un certo punto chi se ne frega: aver avuto Rafa in squadra è una di quelle cose per cui è valso la pena tifare Toro, uno dei ricordi a cui appendersi quando andava male per ricordarci chi eravamo.

Il Memorial Baretti è un prestigioso quadrangolare con semifinali e finali e il primo impegno del Toro è contro la Samp, futura campione d’Italia. Vazquez ci mette 3’ a lanciare splendidamente in area Mussi, che viene steso da Bonetti guadagnandosi il rigore. Pochi secondi e, dal dischetto, l’ex madridista gonfia la rete mandando in visibilio i tifosi granata che hanno riempito il “Puchoz” di Aosta. Lo spagnolo stravince il duello fra stelle straniere col doriano Mikhailichenko, il Toro stravince quello coi blucerchiati: una punizione di Policano e una doppietta di Skoro (tiro al volo e altra punizione), inframezzati da un gol di Cerezo, significano 4-1. Quando, all’80’, Ciccio Romano lascia il campo a Carillo, porge la fascia di capitano proprio a Martin Vazquez che cerca di darla a qualche compagno, ma poi capisce: quella è per lui per quei 10’ col pubblico in delirio. “Martin Vazquez granata anche nell’animo” titola la Stampa un paio di giorni dopo. Che bello l’amore, vero? La finale del “Baretti” è contro la Fiorentina e non si mette bene, col vantaggio viola segnato da Kubik. Il Toro è in difficoltà, poi si scuote e perviene fortunosamente al pareggio con un cross di Lentini deviato da Faccenda al 40’. Nella ripresa meglio noi, ma sembra che quel torneo si deciderà ai calci di rigore. Sembra, perché poi arriva la grande bellezza.

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Su un pallone vagante ai venti metri, Rafa anticipa tutti e si autolancia nell’area viola. Due difensori gigliati si ritrovano davanti allo spagnolo, incerti se andargli contro o attendere. L’esitazione è fatale, perché Vazquez è un treno, li salta con un pallonetto e gli passa in mezzo. La sfera va verso l’esterno, vicina alla riga di fondo. La scelta più ovvia sarebbe metterla giù col sinistro e provare a crossarla, ma la bellezza non sta nelle cose ovvie, non sta nelle cose facili, quella sera sta tutta nel piede destro di Martin Vazquez, per essere precisi nel suo esterno destro che decide di tirare da posizione impossibile, inventando una traiettoria quasi meroniana che scavalca Landucci e si insacca sul palo lontano. Un istante di smarrimento, di sorpresa e poi ci lasciamo andare. Festa in campo. Nessuno ricorda che è solo un’amichevole. Skoro, Policano, Bresciani e uno sbarbato Annoni sommergono il numero dieci. Festa sugli spalti, dove spiccano tanti baschi bianchi e granata. Festa a casa mia che uso le corde vocale con la stessa tonalità che utilizzerò tante volte in quel grande campionato. Sì, perché la bellezza è anche un segno. Due anni prima arrivammo ultimi al “Baretti” e retrocedemmo. Stavolta lo vinciamo e alla fine dell’anno andremo in Uefa, obbedendo all’”Emiliano portaci in Europa” cantato a Mondonico al raduno del Fila e colonna sonora stagionale. E, sappiatelo, dire “sei bella/o come il gol di Martin Vazquez al memoriale Baretti” a una ragazza, a un ragazzo, a chi vi pare, è davvero uno dei complimenti migliori che si possano fare. C’è una buona probabilità che chiamino la neuro, ma, nel caso, su YouTube il video c’è (“Rafael Martin Vazquez El Campeon, se vi interessa. Dal minuto 0.56): potete sempre mostrarlo. Fatemi sapere come va.

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