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La prima volta che ho pianto per il Toro è stata il 16 settembre 1990 il e avevo undici anni. Non che prima, fra una finale di Coppa Italia persa ai supplementari, un derby spareggio Uefa perso ai rigori e la clamorosa retrocessione a Lecce nel 1989, non avessi avuto occasioni per farlo, ma l’ingenua fiducia nell’avvenire che poteva avere un bambino mi aveva fatto prendere le cose con più filosofia di quanto avrei mai fatto dopo. Quel pomeriggio è stato diverso: la pubertà e l’incombente inizio delle scuole medie mi stavano aiutando a capire molte cose.
La prima volta che ho pianto per il Toro è stata anche la penultima. La seconda è arrivata mentre tornavo dalle giostre della fiera di Rivoli, quando un tiro da fuori di Maldini a tempo scaduto faceva sfumare una vittoria per 1-0 contro il Milan. Un pianto a dirotto, di quelli che ti fanno sussultare e ti lasciano col mal di testa. Da lì in poi, solo lacrime che uscivano quasi con pudore, infinitamente inferiori al magone che avevo dentro per la traversa di Sordo ad Amsterdam che ci negò la Coppa Uefa e la speranza di un mondo migliore o per lo spareggio perso col Perugia o per le varie amarezze sparse che hanno costellato la nostra storia più o meno recente. Lacrime che bruciavano, ma si fermavano sulle ciglia. Nulla del liberatorio pianto a dirotto del ragazzino. Tanto della rabbia repressa dell’adulto.
La prima volta che ho pianto per il Toro ha un nome e un cognome: Giuseppe Carillo. Mediano, sei stagioni all’Ascoli, nel Torino neopromosso di Mondonico, con una qualità pazzesca in mezzo, è destinato a fare il rincalzo. Non conosco uno per uno tutti i tifosi granata, ma sono certo che nessuno di loro gli abbia dedicato i pensieri che gli ho dedicato io da trentun anni a questa parte.
Il Toro gioca a Bari, seconda giornata di campionato. Accendo Tutto il calcio minuto per minuto in ritardo. Col San Nicola non si collegano mai. Poi, a un certo punto, interruzione: “pareggio del Bari con Raducioiu”. Quindi stavamo vincendo: il vantaggio, la cosa più bella della domenica, non me lo sono goduto nemmeno per un istante e ne sono venuto a conoscenza quando ormai non c’era più. Che beffa. Un segnale su come andrà a finire la domenica.
Un segnale che non voglio ascoltare, anche perché l’orecchio attaccato alla radiolina sente che stiamo giocando bene. Ogni volta che arriva il nostro turno nel giro dei campi si racconta di un’occasione fallita di poco, di una traversa, di un gol annullato. Sembra questione di momenti l’interruzione catartica ad annunciare il nuovo vantaggio, ma passano i minuti e non arriva. Poi, all’89’, sembra il momento buono. Interruzione senza boati di sottofondo: buon segno, in genere significa gol della squadra in trasferta, cioè noi. Invece “Rigore per il Bari”.
A mille chilometri di distanza da me, qualche istante prima, un pallone vagante in area abbastanza innocuo, dopo un rimbalzo anomalo veniva colpito con una mano da un giocatore. Quel giocatore è Giuseppe Carillo. Per un rigore contro a un minuto dal termine, in genere, l’arbitro viene assediato. Quella volta è così netto che nessuno osa protestare. L’immagine più iconica è quella di Fusi che si mette le mani nei capelli, incredulo.
La parata è una chimera a cui non credo nemmeno per un secondo. Joao Paulo segna, scappo in bagno in lacrime. Abbiamo perso. Senza meritarlo. Giusto per dare l’idea di quanto accaduto, Salvemini, tecnico del Bari, ammetterà di aver avuto molta fortuna ai microfoni Rai: quale allenatore lo fa, senza aggiungere un “ma” a caso per giustificare in qualche modo un risultato positivo? Segno che il Toro strameritasse e l’idea viene confermata quando, con gli occhi ancora rossi di pianto, guardo il servizio di Novantesimo Minuto: ogni gol sbagliato è una pugnalata, ma quel rigore provocato sono tutte e ventitrè le coltellate subite da Giulio Cesare. Giuseppe Carillo, io ti detesto.
Passano i mesi, il Toro ingrana, lotta per un posto in Europa. Per la prima volta vado allo stadio: la Maratona è un sogno, anche se sono al primo anello e non si vede una fava. L’avversario è il Bologna di Radice ultimo in classifica, andiamo subito in vantaggio, sembra tutto facile. Poi, al 36’, si infortuna Sordo. Indovinate chi entra al suo posto: sì, proprio lui. Non passano nemmeno 10’ e serve Notaristefano che avanza fino al limite dell’area e segna: un ottimo passaggio, se non per un piccolo particolare. Notaristefano è un giocatore del Bologna e siamo sull’1-1. Carillo l’ha di nuovo fatta grossa.
Ci sarebbe tutto per alimentare il mio odio sportivo, invece no. Il fatto di aver sentito qualsiasi insulto indirizzato nei suoi confronti da quelli intorno a me, fa scattare una certa solidarietà umana, aiutata dal non secondario fatto che segneremo tre reti nella ripresa e quando si vince 4-1 si è tutti più buoni. Giuseppe Carillo, io ti perdono. Lui, secondo me, lo capisce e da quel momento il resto della sua esperienza in granata avrà l’obiettivo di meritare questo perdono.
L’occasione arriva due giorni dopo. Coppa Italia, quarti di finale contro la Samp futura campione d’Italia, battuta a domicilio in campionato e all’andata a Torino per 1-0. Un eurogol di Bonetti pareggia quello di Lentini tredici giorni prima. Carillo, subentrato nella ripresa, prova a evitare i supplementari con un tiro angolato, ben indirizzato, ma che centra la base del palo. Si va ai supplementari, ma i miei mi spediscono a letto perché il giorno dopo c’è scuola e ho poco potere contrattuale per trattare. Ovviamente radiolina sequestrata. La notte passa tra sogni e incubi sull’esito della partita e appena suona la sveglia iniziare la giornata con “il Toro ha perso ai rigori” è degno di un meme sul lunedì, benchè sia mercoledì. Il GR regionale parla di un palo colpito da “Cariglio”: gli hanno persino sbagliato il nome, leggendolo alla sudamericana. Che amarezza. Inizio a volergli davvero bene.
Il Toro conclude il campionato in Europa, clamorosamente davanti alla Juventus, esclusa dalle coppe: non capiterà mai più. Prima della Uefa, però, c’è la Mitropa Cup da onorare: trofeo che vede partecipare le prime due classificate in B dell’anno prima, Torino e Pisa, che passano i rispettivi gironi e si incrociano in finale. Ecco l’occasione d’oro per Carillo e stavolta la sfrutta in pieno: all’ultimo minuto dei supplementari, si ritrova la palla buona in area e non la sbaglia. Esulta felice, magari pensa a me davanti alla televisione. “L’avrà visto questo gol, quel ragazzino che piangeva a causa mia, c’è la diretta Rai”. Sì, c’era la diretta Rai. Fino al 90’. Il palinsesto non ha previsto i supplementari: linea al telegiornale. Una di quelle cose che ti fa amare il servizio pubblico. La rete che ci ha fatto vincere l’unico trofeo europeo della storia non l’ha praticamente vista nessuno, su YouTube è riapparsa da non molto tempo. Altra beffa.
Carillo inizia la stagione successiva nuovamente in maglia granata e, nella prima gara interna di Coppa Uefa contro i modesti islandesi dei Rejkjavik, sente che è l’ultima occasione per fare definitivamente pace con me. A inizio secondo tempo scatta in profondità, punta l’area e calcia. La conclusione, leggermente deviata supera il portiere. Con le regole odierne, sarebbe gol suo. Con quelle di allora, a cui basta anche un refolo di vento per cambiare la paternità di un gol, no. Il tabellino recita “autorete Haldorsson”.
E’ troppo. Un rigore provocato con un mani scriteriato, un assist a un avversario alla mia prima allo stadio, un palo che avrebbe potuto valere una semifinale di Coppa Italia con tanto di cognome sbagliato il giorno dopo, una rete decisiva che ha fatto alzare una coppa, ma che non ha visto quasi nessuno, un gol in Uefa che svanisce per la deviazione di un oscuro difensore islandese. Questa l’epica tragicomica di Carillo al Toro, che non me lo farà dimenticare mai.
Carillo lascia il Toro per il Venezia, in B, durante il mercato autunnale. L’esordio è sul campo del Taranto: al 77’, sull’1-0 per i suoi, anticipa tutti su un corner e mette nel sacco. Peccato che la porta sia la sua. Mentre guardo quell’autorete, parte della consueta carrellata che chiude le trasmissione sportive, e vedo lui che si dispera, non posso fare a meno di pensare che un piccolo tifoso arancioneroverde, forse, quel giorno ha pianto per la prima volta per un gol subito dalla sua squadra.
Classe 1979, tifoso del Toro dal 1985 grazie a Junior (o meglio, a una sua figurina). Il primo ricordo un gol di Pusceddu a San Siro, la prima incazzatura l’eliminazione col Tirol, nutro un culto laico per Policano, Lentini e…Marinelli. A volte penso alla traversa di Sordo e capisco che non mi è ancora passata.
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