“Mi è venuto da pensare…perché resiste? Perché resiste questa fedeltà al Torino? Nonostante il purgatorio cairota capace di annichilire le resistenze più tenaci, l’assenza di risultati sportivi, la distanza geografica per me come per molti, l’indifferenza delle istituzioni. (…) Perché il Torino è un Mito. Qualcosa di astorico, atemporale, sovrapersonale. Del Mito ognuno fa la propria ricerca inesausta e mai pienamente soddisfatta: ne svolge le trame, compulsa gli indizi, si fa proiezioni, ne ricava gioie e dolori, alcune condivise e altre inconfessabili. Questioni private che lo fanno sentire diverso, inquieto, passionale, orgoglioso: uno del Toro. (…) Il Torino incarna un mito: è un racconto fantastico che non prevede dimostrazione e in questo senso è opposto alla dimostrazione ben fondata di una qualche verità a cui si attinge invece attraverso l’argomentazione razionale. Allo stesso tempo è una questione privata, carburante dell’immaginazione che se accoglie il mito granata è per rigenerarlo, perché ognuno di noi conserva immagini che mostrano trame invisibili che tutto connettono e sostengono. Color granata”.
culto
L’ultimo gol al Filadelfia
(Guido Turco)
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“Hai detto che le emozioni sono sopravvalutate, ma è una stronzata. Le emozioni sono tutto quello che abbiamo.”
(“Youth”, Paolo Sorrentino)
“Ex igne fax ardet nova. Dal fuoco arde una nuova fiamma”
(Stadio Filadelfia)
"Io sono di fede granata, lo sono sempre stato e lo sarò sempre. Più che un tifo è una fede, mi lega al ricordo di mio padre che mi portava, insieme a mio fratello, fin da piccolo a vedere la nostra squadra del cuore al Filadelfia”.
(Gianni Minà)
Il diciannove maggio 1963 è una data storica nella storia del Toro non tanto per quello che è successo in campo, ma per il campo in sé: quella domenica i granata disputano l’ultima partita di campionato allo stadio Filadelfia. Era già successo che il Toro dovesse lasciare il Fila è fu un’esperienza fallimentare. Nel 1958/59 con la “T” di Talmone sul petto, sponsorizzazione ante litteram senza fortuna, giocando al Comunale e allenandosi in Piazza d’Armi, i granata conobbero l’onta della prima retrocessione della propria storia nonostante qualche significativo colpo di coda come il derby di ritorno vinto con la tripletta di “Pecos Bill” Virgili. Il precipitoso ritorno a casa, in un Filadelfia ristrutturato, venne scandito da cinque reti al Cagliari nell’esordio cadetto davanti a spalti gremiti come se fosse un big match della massima serie, tanto per chiarire la simbiosi tra i colori granata e quella casa che ci aveva permesso di resistere nei primi anni post-Superga col pubblico praticamente in campo a sostenere chiunque vestisse la maglia granata e a ringhiare contro gli avversari. Nonostante ciò l’addio al Fila, per quanto concerneva le partite, era solo rimandato. Il metodo che si utilizzò per evitare un altro tracollo è perfettamente descritto da Marco Cassardo in “Belli e dannati”: “Ci si preparò al trasferimento definitivo adattandosi a una scomoda ma utile condizione di pendolarismo: match di piccolo e medio cabotaggio al Filadelfia, sfide di lusso allo stadio Comunale. In questo modo il popolo granata ebbe modo di prendere confidenza con il suo nuovo territorio, in particolare con una parte di esso, la curva Maratona (…) In quei tre anni i tifosi granata si abituarono, impararono ad amare quella fetta di stadio, posero le basi per fare della Maratona una delle curve più pirotecniche e appassionate d’Europa”. La prima stagione giocata interamente al Comunale, con Pianelli presidente, Nereo Rocco allenatore, Ferrini in mezzo al campo e Hitchens e Peirò in avanti, finirà con un settimo posto e la finale di Coppa Italia persa contro la Roma (sigh), giocata curiosamente all’inizio della stagione successiva: non male. L’anima del Toro avrebbe potuto comunque continuare a correre sull’erba del Filadelfia tutti i giorni della settimana visto che avremmo continuato ad allenarci sul campo degli Invincibili, altro che in piazza d’Armi in mezzo ai pensionati che giocavano a bocce.
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Il diciannove maggio 1963 i granata non sono ancora certi che quella sarà l’ultima gara di campionato al Fila, ma possono intuirlo visto che, per la stagione successiva, la commissione di vigilanza ha già fatto sapere che ridurrà ancora la capienza massima a 25000 posti, una misura che La Stampa definisce “troppo modesta anche per incontri non di primissimo piano” facendoci volare col pensiero ai giorni nostri dove quel numero di spettatori verrebbe descritto come pienone. Sebbene tranquillo il Toro gioca con grande ardore la gara con il Napoli che sta lottando per non retrocedere. Forse sente che sarà quello il momento dell’addio alle domeniche pomeriggio al Fila, ma soprattutto, meno poeticamente, vuole mettere a tacere alcune voci infondate che si sono materializzate prima della gara. Il consigliere del Napoli Scuotto ha infatti ricevuto una misteriosa telefonata che lo informava che, dietro ingente somma, i giocatori granata avrebbero lasciato vincere i partenopei. Il dirigente azzurro ha informato subito la Lega e i granata della chiamata ricevuta, a cui i nostri erano assolutamente estranei, e la partita si è potuta svolgere regolarmente.
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Lo stadio è gremito, i tifosi del Napoli sono tantissimi e solo un servizio d’ordine ben organizzato riesce a far sì che il gioco scorra tranquillo. Poco dopo la mezzora il Toro conquista un calcio d’angolo sulla sinistra e Carlo Crippa si accinge a batterlo. Parabola a uscire su cui il portiere Cuman si lancia in uscita, ma allontana male il pallone. La sfera arriva a un giocatore che l’area avversaria non la frequenta tantissimo: Enzo Bearzot, numero quattro, capitano. Enzo Bearzot arriva al Toro nel 1954. La leggenda vuole che lo faccia con un anno di ritardo in quanto i tifosi del Catania, dove l’aveva ceduto l’Inter, gli chiesero di rimanere dopo uno spareggio promozione perso per tentare nuovamente la scalata in A. Bearzot accetta e gli etnei riescono a trovare la massima serie per la prima volta nella loro storia. Arrivato a Torino il futuro CT della Nazionale campione del mondo ci mette un attimo a innamorarsi non tanto della città, ma della squadra (e, onestamente, come dargli torto). Se la metropoli è fredda, l’avamposto granata è bollente, quasi un assaggio di provincia, nel miglior senso del termine, in una grande città. L’abbraccio dei tifosi arrivato al Fila, la lettura dell’incisione su una gradinata “Ex igne fax ardet nova” (“dal fuoco arde una nuova fiamma”), l’emozione di spogliarsi, allenarsi e giocare dove lo avevano fatto Loro, l’orgoglio di indossare la numero quattro di Giuseppe Grezar. Per questo Bearzot si cala subito nella realtà granata degli anni ’50, quella dei tentativi di ricostruzione, di aiutare una squadra che soffriva. Per questo sarà quasi in lacrime quando la società gli comunicherà, dopo due stagioni, che deve tornare all’Inter per motivi economici. E dire che sarebbe una gran rivincita: i nerazzurri che lo avevano acquistato nel 1948 e poi ceduto nel 1951 a Catania ora lo rivolevano e non era più il giovane di belle speranze che rischia di esordire a San Siro con la maglia messa al contrario, ma un calciatore fatto e finito. Però l’amore per il granata era troppo ed Enzo sarà ben felice di poter ritornare granata dopo un solo anno e non andare più via.
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Mediano e difensore, Bearzot è così dedito alla causa che ben presto si ritrova sul braccio un pezzo di stoffa che è un onore portare: la fascia da capitano. Gigi Garanzini, suo biografo soprattutto suo amico, scrisse che, se ringraziarlo per aver portato l’Italia sul tetto del mondo poteva farlo felice, ricordargli di essere stato il primo grande capitano del Toro dopo Superga lo faceva letteralmente commuovere. Bruno Roghi, sullo “Sport Illustrato” scriverà di lui “compendia le virtù tattiche, tecniche, atletiche e moraliste che fanno di un giocatore uno strumento vitale, una vite dei congegni di squadra, addirittura una leva del suo movimento. Spesso Bearzot è dimenticato dai recensori domenicali come, nella lista dei ristoranti, non si fa citazione del pane. Ma il suo è proprio il pane del nutrimento”. Anche l’ultimo pezzo del suo cammino granata è significativo: l’arrivo di Nereo Rocco, oltre a portare a un immediato feeling e a serate splendide seguendo le tournée di don Francesco Ferrando, magnifico cappellano del Toro, che spesso finivano alla grande in osteria, indirizzerà il “Vecio”, come lo soprannominò Giovanni Arpino, a intraprendere la strada della panchina quando capì di essere agli sgoccioli della carriera di calciatore. Bearzot non lo capì tanto nelle domeniche di campionato quanto nelle partitelle del giovedì al Filadelfia non riuscendo a stare dietro a un demonio come Giorgio Ferrini, idealmente suo successore e più grande capitano della storia granata. Ancora una volta sono i muri del Filadelfia a tracciare la via. Bearzot addomestica il pallone toccato dal portiere del Napoli con un ottimo controllo e poi lo scaraventa in rete di forza, di rabbia. La Fossa dei Leoni esplode: il Toro è in vantaggio. Nella ripresa il Napoli pareggerà con un rigore contestato di Corelli, dopo che ne era stato probabilmente negato uno in precedenza, col pubblico parecchio infuriato con Lo Bello. L’assalto granata finale è generoso, ma infruttuoso. I partenopei portano a casa un punto d’oro visto che il Genoa, diretta avversaria, ha perso a Ferrara contro la Spal, ma non servirà a nulla perché nella domenica successiva tutto sarà ribaltato. La cosa più importante della gara sarà quella del 32’, quando il tabellino annota la rete del vantaggio di Enzo Bearzot in uno di quei giochi del destino che sono qualcosa di meraviglioso. Il capitano innamorato del Filadelfia che segna la rete del saluto allo stadio.
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P.S. Il gol di Enzo Bearzot è l’ultimo in campionato, ma non l’ultimo in assoluto visto dal Fila. Ci fu l’ultimo gol in una coppa Europea siglato da Chico Locatelli nella semifinale contro il Vasas in Mitropa Cup lo stesso anno, come ci fu l’ultima rete in gara ufficiale siglato da Corradini nella sconfitta contro il Pisa nel Torneo Estivo, competizione che dovrebbe smentire chi dice che solo nei tempi moderni si giocano “gare inutili”. L’ultima rete segnata da un giocatore della prima squadra al Fila in una gara di un certo prestigio, che non fosse un’amichevole in famiglia o contro dilettanti, ha una storia particolare. Il 19 febbraio 1987 il Toro affronta in amichevole lo Steaua Bucarest campione d’Europa, ma la gara, che si sarebbe dovuta disputare al Comunale, viene spostata al Fila a causa della nevicata che ha colpito Torino. Dopo la neve arriva la pioggia e la gara si gioca in un clima d’altri tempi. L’agonismo è così alto che Kieft e Bumbescu vengono espulsi. Il risultato finale sarà di 1-1 con Piturca che, a metà ripresa, risponde al vantaggio siglato al 24’ da Pedro Mariani ed è ancora una volta il destino a metterci lo zampino. Un giocatore uscito dal Fila, innamorato del Fila, coi valori del Fila addosso che segna al Fila una rete in una partita che non avrebbe nemmeno dovuto giocarsi lì. Agli dei non si comanda.
Classe 1979, tifoso del Toro dal 1985 grazie a Junior (o meglio, a una sua figurina). Il primo ricordo un gol di Pusceddu a San Siro, la prima incazzatura l’eliminazione col Tirol, nutro un culto laico per Policano, Lentini e…Marinelli. A volte penso alla traversa di Sordo e capisco che non mi è ancora passata.
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