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Culto

Onore al Gatto Silvestro

Onore al Gatto Silvestro - immagine 1

Il protagonista della prima puntata di Culto del 2022 non è un calciatore, ma uno striscione. Francesco Bugnone ci racconta del clima in cui nacque "Onore al Gatto Silvestro"

Francesco Bugnone

C’era una volta lo striscione. Certo c’è ancora, ma è indubbio che rispetto a un tempo neanche troppo lontano la sua importanza e la sua qualità siano diminuite. Una volta quei lunghi teli erano una sorta di ufficio stampa delle tifoserie per comunicare con l’esterno inteso come avversari, squadra, stampa e tutto quello che girava intorno al pianeta calcio. Ce n’erano di belli, di banali, di beceri, di memorabili. Quando ero in Maratona e vedevo che iniziavamo a srotolarne uno allungavo il collo per capire cosa ci fosse scritto, sperando di leggere qualcosa di storico, di figo. Qualcosa di cui vantarmi, sì, perché non era solo quello che c’era in campo da presentare nelle discussioni coi tifosi delle altre squadre, ma anche quello che succedeva sulle gradinate, talvolta soprattutto quello che succedeva sulle gradinate.

Intorno al 2004 Striscia la Notizia decide di inaugurare una rubrica al suo intitolata “Striscia lo striscione” affidandola a Cristiano Militello, autore del libro “Giulietta è ‘na zoccola”, raccolta degli striscioni più divertenti degli stadi italiani. Militello è simpatico, ha conoscenza dell’ambiente e passione, proviene da una lunga gavetta nelle tv locali toscane in cui impagina servizi surreali intervistando gli spettatori delle partite della Fiorentina. Nonostante le miglior intenzioni, però, paradossalmente scatta qualcosa dopo qualche tempo: a dare un’occhiata alle varie gradinate, spuntano dei due aste che sembrano fatti più per apparire in trasmissione (giochi di parole sui cognomi, umorismo un po’ normie) che per lanciare un messaggio.

 

Lo striscione perde progressivamente importanza con l’avvento dei social. In un momento in cui appena succede qualcosa puoi andare su Facebook, su Twitter o su qualsiasi piattaforma tu voglia per fare il meme, la presa in giro, lo slogan, lo striscione viene battuto sul tempo. E’ un po’ il motivo per cui la Gialappa’s ha detto di non poter fare più Mai Dire Gol: al momento di andare in onda molto materiale è già vecchio, sviscerato, fagocitato anche se è accaduto quattro-cinque ora prima.

 

Esempio concreto: Toro-Rimini 2006, prima partita dopo l’esplosione di Calciopoli mentre stiamo realizzando che quello che avevamo sempre sognato si stava finalmente realizzando. Quel pomeriggio la Maratona buttò fuori striscioni a getto continuo, alcuni preparati, altri fatti sul momento. Il social era la curva. Ogni tot minuti usciva una presa per il culo, poi un’altra e un’altra ancora. Adesso non sarebbe più pensabile. Nelle ore intercorse tra la diffusione delle notizie e il calcio d’inizio la rete avrebbe già detto tutto quello che si poteva, forse anche di più. Come si fa a essere originali e graffianti in questa situazione? Difficile. Rimangono i cori e le scenografie, ma gli striscioni perdono sempre più importanza. Tranne un geniale due aste “Ho speso più io in vino che Cairo nel Torino” ne ricordo ben pochi memorabili negli ultimi tempi.

Il colpo di grazia lo danno anche i controlli delle autorità che, dagli anni ’10, si sono fatti ancora più stretti. Ovvio che fermare striscioni che offendono i morti o contengono messaggi beceri sia corretto, ma il fatto che vengano messi al vaglio anche messaggi più “innocui” fa passare la voglia di sbattersi per qualcosa che, se non capito, può essere bloccato all’ingresso.

 

Calo di ispirazione, forte concorrenza dei nuovi media e repressione. Tutto questo è ancora abbastanza lontano in una domenica di fine gennaio 2000. Una giornata molto importante per il campionato con la Juventus capolista che, appena eliminata dalla Coppa Italia dalla Lazio, pareggia in casa contro il Cagliari fanalino di coda e viene avvicinata a meno uno proprio dai biancocelesti, vittoriosi sul Bari. Si rifanno sotto anche l’Inter di Lippi, 2-1 alla Roma nello scontro diretto, e il Milan. Il Toro, a Venezia, fa una cosa da impazzire. Sotto 2-0, accorcia le distanze con una ciabattata di Grandoni nel recupero e, sull’ultimo assalto pochi istanti dopo, trova un miracoloso pareggio con una rovesciata di Ferrante, azzoppato, ma capace di mettere a segno una rete fantastica. Eppure quel giorno tiene banco uno striscione.

 

Allo stadio Olimpico di Roma, in mezzo al solito tripudio di celtiche, in curva Nord il tifo laziale espone un messaggio: “Onore alla Tigre Arkan”. Arkan è Zeljiko Raznatovic, fra le altre cose capo di una formazione paramilitare serba (le Tigri di Arkan, appunto) macchiatasi di numerosi crimini di guerra negli anni novanta. Il 15 gennaio 2000 Raznatovic viene ucciso nella hall di un albergo con modalità che fanno pensare a un’esecuzione.

 

Perché appare uno striscione nella curva laziale inneggiante ad Arkan? Il comandante era amico di Mihajlovic, colonna biancoceleste, ai tempi della Stella Rossa. Lo racconta direttamente Sinisa,  per esempio con queste parole tratte da un’intervista a Repubblica di novembre 2020: “Nei miei anni a Belgrado l'ho frequentato per circa 200 sere all'anno. Diventammo davvero amici. Quando morì, pubblicai il famoso necrologio che mi ha attirato tante critiche per il mio amico Zeljko, non per il comandante Arkan, capo delle Tigri. Non condividerò mai quel che ha fatto, e ha fatto cose orrende. Ma non posso rinnegare un rapporto che fa parte della mia vita, di quel che sono stato. Altrimenti sarei un ipocrita”. C’è chi afferma che Mihajlovic abbia commissionato anche lo striscione alla curva nord, cosa che ha sempre smentito, e c’è chi dice che sia stata un’iniziativa della tifoseria per onorare l’amicizia tra il nostro futuro tecnico e Arkan.

Storia di vent’anni fa, mezzi comunicativi di vent’anni fa, ma, leggendo, i meccanismi rimangono sempre i soliti. Si parte con la forte indignazione. Si cerca di intervistare più atleti serbi e croati possibile a riguardo, c’è chi svicola, chi condanna, chi non vuole parlarne. Alen Boksic, croato, attaccante laziale, dice che, se fosse stato in campo avrebbe smesso di giocare davanti a uno striscione simile. Al tempo stesso, però, comprende i sentimenti di Mihajlovic (“Con Sinisa abbiamo parlato del suo necrologio, ma per lui Arkan era un amico e forse avrei fatto anch'io la stessa cosa”).

 

Scendono in campo anti-calcio vari che non vedono l’ora di trovarsi di fronte a un fatto del genere per vomitare tutto l’odio che provano verso quel mondo, li seguono anche i minimizzatori di professione sostenendo che lo striscione lo ha messo una minoranza che vogliate che sia. Gli Irriducibili dichiarano che il loro non era un elogio al criminale, ma all’uomo scomparso, amico di Stankovic e Mihajlovic. Poi tocca a Sua Maestà la Politica. Pugno di ferro, sospendere le partite. Voce discordante quella di Alessandra Mussolini che ce l’ha coi falsi moralisti che si indignano per le bandiere esposte in curva, ma non per le attività dei procuratori, per il doping e per gli sprechi nel calcio in un polpettone in cui viene inserito di tutto di più.

 

Nel concreto che fare? La sospensione delle gare non è facilmente praticabile. E se si decidesse di tirare fuori uno striscione scomodo per far prendere fiato a una squadra in difficoltà o far saltare la gara coi propri beniamini in svantaggio? Già, perché ai tempi non c’era ancora il recupero dal minuto dell’interruzione, ma, in caso di rinvio, si sarebbe ripartiti da zero. Poi ci sono le modalità di rimozione degli striscioni: come fare entrare le forze dell’ordine in curva senza provocare troppo scompiglio? Si parla anche di sconfitte a tavolino, di gare a porte chiuse, di squalifiche del campo.

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Passano i giorni e iniziano a spuntare anche voci critiche sui provvedimenti da parte degli addetti ai lavori. Con il turno di campionato incombente si arriva a una soluzione più soft: sospensione come ultima ratio solo dopo aver provato in ogni modo a rimuovere striscioni offensivi o razzisti e intensificazione dei controlli. A questo punto entriamo in gioco noi. Noi come Toro, noi come curva Maratona. Già, cosa c’entriamo noi?

 

C’entriamo perché la domenica successiva si gioca Toro-Lazio. In una di quelle belle domeniche a piedi che amano accadere quando giochiamo in casa noi, saremo i primi ad accogliere la tifoseria finita nell’occhio del ciclone. La sensazione è quella di attesa, ma non per motivi di ordine pubblico. Si attende come reagiremo come tifoseria.

Se il rendimento del Toro di quegli anni è da basso impero calcistico, la curva è ancora in gran forma. Ha ancora senso parlare di un Noi. Non abbiamo bisogno di dircelo, come succede troppo spesso adesso, lo sappiamo e chi sa non ha necessità di ripeterlo sempre. Non lo sappiamo solo noi, ma anche gli altri tifosi e gli addetti ai lavori. Ci sentiamo gli occhi addosso e, devo ammettere, che la sensazione lusinga qualunque tifoso granata sia che partecipi costantemente alla vita di curva, sia che guardi da più lontano. Vediamo cosa tireranno fuori quelli del Toro. Nessuna ansia da prestazione, quello che mostreremo sugli spalti sarà addirittura superiore alle aspettative. Sarà uno degli striscioni più famosi della nostra storia.

 

C’è una sorta di introduzione molto critica sul portare altra cosa in curva oltre alla passione per la propria squadra (“Esponete simboli, parlate di onore, ma non tifate il vostro colore”) poi il pezzo da novanta: “Onore al Gatto Silvestro”. In quattro parole si smonta qualsiasi retorica. E’ uno striscione che è uno sberleffo a tutto quello che è successo, da quando è stato sollevato quel messaggio in curva Nord dando il via alla miriade di parole che ci hanno sommerso della settimana. Un pernacchione liberatorio, una battuta taglia gambe che arriva dopo un discorso troppo pomposo. Una piccola grande gemma.

 

Quel giorno abbiamo perso 4-2, ma non eravamo particolarmente tristi, perché sugli spalti avevamo vinto abbondantemente e c’era di che andare fieri. Tutti ci aspettavano, non avevamo deluso e dobbiamo ringraziare i geni che hanno tirato fuori questa idea meravigliosa (vi prego, palesatevi, raccontatemi come è stato partorito il tutto). Il fatto è che questa sensazione mi manca. Mi manca da morire una Maratona così. Mi manca quel Noi.

 

Classe 1979, tifoso del Toro dal 1985 grazie a Junior (o meglio, a una sua figurina). Il primo ricordo un gol di Pusceddu a San Siro, la prima incazzatura l’eliminazione col Tirol, nutro un culto laico per Policano, Lentini e…Marinelli. A volte penso alla traversa di Sordo e capisco che non mi è ancora passata.

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