I ricordi di Facebook, ieri, mi hanno detto una cosa che già sapevo. Il 13 aprile è l’anniversario di “quel” Toro-Genoa. Il fatto è che le foto di quel giorno sono arrivate scorrendo un po’ troppo. Sono passati sette anni e a me sembra ancora un ricordo vicinissimo, di quelli che puoi toccare, anche se nel frattempo ho cambiato lavori, amori, abitudini, quel pomeriggio sembra ancora lì. Come spesso accade in questo periodo mi ci sono aggrappato e mi è venuto voglia di raccontare quella partita, anzi, quel minuto e tutto quello che gli è girato attorno. Sembrava un momento di svolta e col senno di poi non lo è stato, purtroppo. Però abbiamo toccato il cielo con un dito ed è criminale far sì che quello che non è successo sporchi un momento come ce ne sono pochi nella vita di un tifoso.
Culto
Storia di un minuto
Il minuto parte da lontano. Alla trentesima giornata, perdendo in maniera crudele nella Roma giallorossa nonostante un meraviglioso gol al volo di Immobile su lancio di Vives, il Toro è lontano dalla zona Europa che aveva accarezzato fino alle prime giornate del girone di ritorno. Contro il Cagliari i granata vincono 2-1 grazie al colpo di testa di El Kaddouri (con esultanza stizzita incorporata) e a un gol di Cerci “alla Cerci” lanciato dal solito Vives. Il sesto posto è un pochino più vicino, tanto che tornando alla macchina si fantastica di una rimonta per l’EL, ma sarà colpa del sole primaverile che, si sa, è ingannevole.
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A Catania anche queste minime speranze sembrano spazzate via quando Bergessio porta in vantaggio gli etnei, alla classica ultima spiaggia in quelle partite che il Toro, storicamente, perde o meglio, quelle partite che ci ricordiamo quasi esclusivamente quando perdiamo. L’argentino segna dopo 2 ’ approfittando di un pallone perso e di uno scivolone. Dopo un primo tempo da dimenticare, il Toro nella ripresa comincia il suo assedio e nel giro di 4’ la ribalta. Al 79’ El Kaddouri parte in percussione facendoci vedere di cosa sia capace quando gli gira e mette un filtrante per Farnerud, il quale, inseritosi perfettamente, pareggia di sinistro. All’83’ Immobile è spietato a ribaltare la situazione sulla torre di Meggiorini, prima che Padelli la blindi su Izco. Due gol in quattro minuti che fanno passare dalla rabbia alla gioia sono una bella cosa. Non sappiamo ancora cosa succederà di lì a una settimana.
La partita contro il Genoa diventa di colpo importante, fondamentale, può dare forza al sogno europeo. Peccato che per 86 minuti sia una delle gare più brutte che occhio umano abbia visto. Ricordi sparsi (e mi tengo largo): un tiro di Motta su cui Padelli è pronto, allungo classico di Cerci con parata di Perin, Immobile che punta l’area, ma sbaglia l’ultimo passaggio per Alessio, Glik che colpisce di testa all’indietro e perde dieci anni di vita perché si ritrova Padelli alle sue spalle che non l’aveva chiamata, ma l’odierno dodicesimo dell’Inter se la cava con un tuffo tanto disperato, quanto efficace. La cosa più importante è successa al 57’, anche se apparentemente è “solo” un cambio: Basha esce malconcio dal campo e lo sostituisce Gazzi.
Sugli spalti la situazione è frustrante. Dagli altri campi arrivano risultati favorevoli, se solo vincessimo, se solo vincessimo saremmo in piena corsa, ma siamo lì, annichiliti dal caldo a pascolare in campo. L’impotenza che dà quella che sembra sia un’occasione persa fa incavolare. La speranza che qualcosa cambi da qualche parte nel cervello o nel cuore, comunque, c’è, c’è sempre, c’era pure l’anno prima, l’anno di quel biscotto clamoroso. Però vince la rabbia che a 4’ dalla fine diventa rassegnazione: Sturaro avanza sulla sinistra e centra dal fondo, Padelli è incollato sulla linea di porta, Moretti sbaglia una delle sue pochissime cose in maglia granata, Gilardino la mette dentro non si capisce bene come, ma il Genoa è in vantaggio. All’88’ Meggiorini rileva Vives, al 90’ Barreto sostituisce Vesovic. Sono i cambi della disperazione, oltre la disperazione. Nessuno sembra crederci più. Anche la piccola speranza di cui sopra china il capo. Qualcuno inizia a uscire, senza sapere di star facendo una delle più grandi stronzate della sua vita sportiva.
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Poi, all’improvviso, cambia tutto. El Kaddouri porta palla nella metà campo genoana e il suo caracollare manda fuori giri i giocatori del Grifone che non sanno bene dove piazzarsi, poi verticalizza per Immobile che, spalle alla porta, è controllato da Burdisso. Ciro è in modalità onnipotenza e fa fare la figura del pollo all’argentino che non è esattamente l’ultimo arrivato, poi, un passo dentro l’area, calcia di destro a girare. Perin si allunga, forse la tocca, ma non può fermare la palla che gonfia la rete. Immobile sfoga la sua rabbia da ex correndo sotto la curva, si toglie la maglia, poi torna indietro.
La Maratona ruggisce, ma è solo un pareggio e sì, ha ragione Dino Viola che è meglio pareggiare che essere pareggiati, però stavolta sarebbe una gioia effimera, l’amaro in bocca dell’ennesimo bicchiere mezzo vuoto, l’opportunità mancata. Il cervello corre veloce, tutte queste considerazioni vengono sputate fuori con una frase di quattro-cinque parole, di cui almeno una sicuramente irripetibile. Però una scarica elettrica ha percorso lo stadio ed è arrivata fino a Gazzi. Ricordate? E’ entrato al 57’ e in una stagione in cui ha trovato meno spazio di quanto meritasse sta per fare una delle cose più importanti, senza le quali non ci sarebbe nulla di quello che è accaduto dopo. Il Genoa batte a centrocampo e, su un pallone vagante, Alessandro sembra in ritardo, poi allunga la sua gamba al massimo possibile, forse anche di più e con una perfetta scivolata ci fa ripartire, quindi, come sempre, torna nell’ombra, ma chi lo ama, e sono tanti, sa l’importanza di quel gesto e il boato del pubblico quando lo vede realizzarsi è indicativo. Ci stiamo incredibilmente credendo tutti, quando la sfera finisce sui piedi del nostro numero undici.
Cerci abbassa la testa e parte. Qualcuno prova a mettersi in mezzo, ma Ale è incontenibile. Ha in testa solo una cosa, portare la palla il più avanti possibile e metterla in rete. Arriva al limite dell’area, calcia col sinistro, Perin si distende, ma quel pallone è baciato dal dio del calcio, accarezza il palo e gonfia la rete. E’ passato un minuto e venti circa dal gol precedente. Qualcuno sta rientrando in macchina quando sente il grido dello stadio. Vedere entrare quel pallone dalla curva è qualcosa di mistico, difficilmente definibile a parole. Quello che succede dopo lo è ancora di più.
Urliamo, urliamo tutti. Le tonsille e le coronarie vengono messe a durissima prova. In campo è il delirio, Cerci vola sotto la curva togliendosi la maglia, si beccherà ammonizione e squalifica, ma in quel momento nessuno è in grado di intendere e di volere, figuriamoci chi ha fatto quel gol lì. La panchina stessa corre sotto la curva, qualche tifoso entra in campo, gli steward spuntano come cordone protettivo, ma sono parte della gioia anche loro. Ventura prova a rovinare tutto con l’ennesimo gesto polemico, un labiale in cui dice “Bastardi” indirizzato a chi rumoreggiava, ma non ci riesce (postilla: sì, l’hai capito proprio troppo tardi dov’eri capitato, ti ci è voluta la bastonata azzurra per comprendere). Non sono in grado di capire se il gioco riprende o se viene fischiata la fine, non me lo ricordo. Mi ricordo solo che tutti stanno tornando sotto la curva, che Glik si prende in braccio Basha per portarlo a festeggiare.
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Nessuno va via, rimaniamo lì, come automi felici, anche quando i giocatori hanno spostato la festa negli spogliatoi. Rimaniamo lì a ritrovare tutti i pezzi della nostra salute psicofisica messa a dura prova dal delirio. Passeggiamo dentro la curva, assaporando il momento e sapendo che sarà quello di cui parleremo per giorni, ma, conoscendoci, sarà per settimane o anni. Come detto, quel giorno credevamo fosse un punto di svolta, ma non lo è stato davvero, ahinoi. Anni di illusioni, di briciole di bei momenti, di occasioni perse, di campagne acquisti evitabili, fino ad arrivare a oggi. Però quel giorno è bello da ricordare, perché se Cerci si tatua quella data sul petto vuol dire che qualcosa di più di un giorno normale, di una partita vinta e ribaltata alla fine.
Cerci, a fine stagione, sbaglierà il rigore che sembrava estrometterci dall’Europa prima del ripescaggio. La tremenda retorica della sofferenza di cui siamo prigionieri ha fatto dire che quel giorno ha capito cosa volesse dire essere del Toro. No, non è così, non può essere così, basta. Noi non siamo quelli dalla sofferenza, siamo quelli della lotta. Che poi si soffra è nelle cose della vita, la merda succede. Però siamo quelli che lottano, che combattono, che quando va bene delirano. E Cerci il suo bagno di Toro, completo, ce l’ha avuto in quel giorno di metà aprile, sotto un sole caldissimo, dopo averci fatto esplodere. Purtroppo il presente non è quello che ci aspettiamo, ma non è un buon motivi per dimenticare quando siamo contenti. Il 13 aprile 2014 lo siamo stati eccome.
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Classe 1979, tifoso del Toro dal 1985 grazie a Junior (o meglio, a una sua figurina). Il primo ricordo un gol di Pusceddu a San Siro, la prima incazzatura l’eliminazione col Tirol, nutro un culto laico per Policano, Lentini e…Marinelli. A volte penso alla traversa di Sordo e capisco che non mi è ancora passata.
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