Che alcune partite venissero giocate in orari improponibili poteva capitare anche un tempo. Il primo marzo 1961, infatti, quasi ottomila spettatori si recano al vecchio Fila per assistere all’ottavo di finale di Coppa Italia tra Toro e Milan che si gioca alle quindici e trenta di mercoledì. I granata, appena ritornati in serie A dopo un solo anno di purgatorio, stanno lottando orgogliosamente per mantenere la categoria in quello che è un vero e proprio crocevia del loro decennio. Dopo quella stagione non lotteremo più per salvarci, ma vivremo degli ottimi anni ’60 (Law e Baker, l’arrivo di Pianelli, Meroni, Combin e tanto altro) in preparazione dello splendore settantiano. Dieci anni meno celebrati di quanto si dovrebbe, perché in quel periodo si è visto uno dei Tori più veri e amabili di sempre, ma porremo rimedio.
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Toro-Milan 2-1: la nostra magia
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Il Milan sta lottando per lo scudetto, vinto due anni prima, e di lì a un paio d’anni alzerà la Coppa dei Campioni a Wembley, prima italiana a mettere le mani sull’ambito trofeo dopo la doppietta di Altarini a ribaltare il vantaggio di Eusebio nella finale contro il Benfica. Sulla carta non ci dovrebbe essere gara, ma la carta a volte è fatta per essere stracciata.
Il Milan lascia fuori Rivera e Liedholm, ma anche il Toro non scherza. Risparmiare qualche titolare in vista della sfida salvezza contro il Bari porta Beniamino Santos a schierare un mix di vecchie lenze e giovani tra cui spicca Roberto Rosato che, grazie a quei giochi del destino che ci fanno impazzire, fa il suo esordio assoluto in granata nella sfida fra le due squadre della sua vita. L’altro esordiente assoluto è Enrico Albrigi, erroneamente chiamato “Albrighi” dal Corriere dello Sport, anch’egli scrittore di belle pagine in granata.
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Il primo tempo è sorprendentemente di marca Toro e il vantaggio è meritato anche se sul tiro da fuori area di Italo Mazzero al 33’ il sole potrebbe aver giocato un ruolo importante nell’impedire al portiere Alfieri di valutare al meglio la traiettoria. Il Milan si sveglia nelle battute finali della frazione e fa capire l’aria che tirerà nella ripresa dalle parti di Soldan, sostituto di Lido Vieri. Andiamo a riposo in vantaggio, consci che ci sarà da lottare.
La difesa guidata da Bearzot e Buzzacchera tiene, ma al 63’ un preciso colpo di testa di Altafini vale il pareggio. I giornali dell’epoca danno ancora la colpa al sole per motivare un Soldan stranamente immobile, ma ciò che conta è che il risultato sia di uno a uno coi rossoneri che, adesso, sembrano pronti a rimettere le cose sui binari del pronostico di inizio gara. Soldan salva su un tiro ravvicinato di Trebbi e si ripete su Galli, ma al 72’ pare proprio pronto capitolare. Il tocco di Altafini da rapinatore d’area supera il portiere granata, ma la palla picchia contro il palo e torna in campo. Siamo ancora vivi.
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Mentre tutti attendono i supplementari, al 90’ il Toro ha ancora le forze per gettarsi all’attacco in un’ultima azione con la palla che arriva in area a Rino Ferrario. Rino Ferrario ha due soprannomi. Il primo è “Mobilia” e ha una doppia valenza: la provenienza familiare, i suoi erano mobilieri, e la sua prestanza fisica. Il secondo è il “Leone di Belfast” e merita un racconto a parte. Nel dicembre 1957 l’Italia deve giocare contro l’Irlanda del Nord la partita decisiva per qualificarsi ai mondiali svedesi, quelli in cui iniziò a brillare la stella di Pelè. L’arbitro ungherese Zsolt non riesce ad arrivare in tempo per dirigere la gara causa maltempo, gli azzurri si rifiutano di disputare la partita con un arbitro locale e quindi si gioca un’amichevole che si concluderà 2-2, risultato che, tra l’altro, ci avrebbe portato alla rassegna iridata. A fine gara, per motivi non ancora chiariti, molti tifosi di casa invadono in campo e cominciano a picchiare a destra e a manca, concentrandosi soprattutto su Rino che ne prende parecchie, ma riesce anche a darne. Il 15 gennaio 1958 si disputerà la gara che conta per i mondiali e perderemo 2-1. Stavolta nessuna rabbiosa invasione. “Mobilia”, prima del fischio d’inizio, ritroverà addirittura la medaglietta che aveva perso nella gazzarra di un mese prima.
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Rino Ferrario ha giocato gran parte della carriera in difesa, ha vestito a lungo la maglia della Juventus, ma ora, a Torino, viene spesso schierato in avanti contento che, dopo essersi preoccupato per anni degli attaccanti avversari, ora fossero i difensori a preoccuparsi per lui. Per quello si trova in area a ricevere il passaggio di Albrigi e per quello calcia. La difesa rossonera respinge e poi si ferma, quasi comicamente. Al Leone di Belfast non sembra vero. Seconda conclusione e stavolta è quella buona. Il Toro è ai quarti, dove estrometterà il Padova del “Paron”, prima di fermarsi in semifinale ai rigori contro la Lazio. In campionato la salvezza arriverà grazie, soprattutto, a un gagliardo finale di stagione con cinque punti nelle ultime tre partite.
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Esattamente di questa partita mi raccontava il mio dentista, vecchio cuore granata, che quel pomeriggio, giovanissimo, era lì a spaventarsi sul palo di Altafini e a godere per la zampata di Ferrario. Il racconto arrivava proprio alla vigilia della trasferta di Coppa Italia a San Siro e, al di là di qualsiasi scaramanzia, ci credevamo entrambi. Ascoltare quegli episodi mi faceva nascere dentro una sensazione stupenda, la voglia di tornare indietro nel tempo e provare cosa volesse dire andare a vedere una partita che contava al Fila un mercoledì pomeriggio, coi tuoi giocatori che lottano a un passo di distanza dalle gradinate. Soprattutto pensavo alla magia del Toro, di come uscisse nei momenti più impensati come quel giorno dove una squadra condannata a perdere e, teoricamente, con la testa alla salvezza si trovasse di colpo a battere un'avversaria più quotata con la rete allo scadere di un ex difensore riciclatosi in avanti. A volte quella magia del Toro salta ancora fuori, anche se è sepolta sotto la cenere di una società non all’altezza dei nostri sogni e di un presente che, a livello generale, ha poco a che spartire coi valori che vogliamo. Certe notti, però, quella magia esce ugualmente infischiandosene di tutto e può capitare che, in casa dei campioni d’Italia, ai supplementari di un ottavo di Coppa Italia e in dieci dal 70’, un ragazzo senza presenze in A fugga sulla fascia e serva al centro un altro ragazzo che, fin lì, aveva fatto il titolare fuori ruolo alla prima di campionato, ma tutto questo era sufficiente per mettere la palla nel sacco, farci impazzire e farci cantare “Bayeye Bayeye Bayeye e segna Adopo”.
Classe 1979, tifoso del Toro dal 1985 grazie a Junior (o meglio, a una sua figurina). Il primo ricordo un gol di Pusceddu a San Siro, la prima incazzatura l’eliminazione col Tirol, nutro un culto laico per Policano, Lentini e…Marinelli. A volte penso alla traversa di Sordo e capisco che non mi è ancora passata.
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