Il 19 giugno 1993 Luca Fusi alza la Coppa Italia. È l’ultimo trofeo, tornei amichevoli esclusi, che un capitano granata solleva verso il cielo. Nel 2012 avremmo potuto farlo con quella cavolo di coppa Ali della Vittoria, inventata nel 2006/2007 per dare l’opportunità ai gobbi di alzare qualcosa anche in B, ma preferimmo pareggiare contro l’Albinoleffe all’ultima giornata e consegnarlo in mano al Pescara.
CULTO
Una coppa all’inferno
Si tratta di una vittoria che gronda rivincita: è il Toro col cuore spezzato dai pali di Amsterdam e dagli addii di Lentini, Cravero, Policano, Benedetti, Bresciani e Martin Vazquez. Quel Toro, però, è ancora una bella squadra e ha saputo trovare una strada leccandosi le ferite e ricominciando a caricare.
L’ultima coppa alzata ce la siamo andata a prendere per davvero. Nella nebbia più fitta prima, guardando i nostri cugini nelle palle degli occhi per poi issare sulla Mole la nostra bandiera poi. Soprattutto, ce la siamo andati a prendere letteralmente all’inferno, un inferno giallorosso, un inferno col fischietto, in una partita ai confini della realtà.
Il Toro entra in gioco al secondo turno contro il Monza e ipoteca la qualificazione vincendo 3-2 al “Brianteo”: un pallonetto di Silenzi seguito da una gran punizione di Aguilera per il doppio vantaggio, la doppietta di Brogi per farci incazzare un pochettino e una rasoiata da fuori di Sordo a rimettere tutto a posto a 4’ dalla fine. Il ritorno è una formalità decisa da Aguilera, servito direttamente da una lunghissima rimessa di Annoni che coglie dormiente la retroguardia brianzola. Da segnalare una clamorosa traversa dell’oggetto misterioso Saralegui e, soprattutto, l’ingresso in campo di Alvise Zago al 64’, tornato a vestire la maglia del Toro in un incontro ufficiale dopo il maledetto infortunio di Marassi del 1989.
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Dopo il Monza, tocca al Bari. Al “San Nicola” buon 1-1: apre Scifo, lasciato solo soletto al limite dell’area piccola, su torre di Silenzi, pareggia Berardino Capocchiano con un intervento sotto misura. Da segnalare un miracolo di Gentili su colpo di testa di un certo Christian Vieri (sigh). Al ritorno l’eroe è Annoni che ci porta in vantaggio con una punizione deviata da Rizzardi e, al 92’, quando prendiamo un contropiede totalmente folle, riesce a evitare i supplementari recuperando su Alessio, che aveva già evitato Marchegiani. La Maratona canta “vinceremo il tricolor” con un pizzico di dolce ironia, perché il Toro, nonostante qualche piccolo inciampo come la doppietta di Borgonovo nel recupero che cancella una vittoria già fatta a Pescara, è l’unica squadra che sta tenendo il passo del Milan stellare, del Milan di Lentini, che sin lì le ha vinte tutte. I granata sono secondi da soli a -2 dai rossoneri, che hanno una gara in meno. In parole povere sono i primi degli umani e il motivo del coro è che domenica andremo proprio nella San Siro rossonera. Finirà 0-0, con un paio di occasioni buone nel primo tempo (una clamorosa fallita da Aguilera su assist d’oro di Casagrande), mezzora in dieci per l’espulsione di Mussi e tanto cuore, che senza quello non fermi una squadra che ha vinto con chiunque.
La coppa Italia torna a fine gennaio, ma purtroppo trova un altro Toro. Dopo lo 0-0 di Milano, vinciamo 2-1 all’Olimpico contro la Lazio e poi basta. La mazzata sul morale granata la dà un derby perso nel modo peggiore possibile (autorete di Venturin al 94’ dopo essere passati in vantaggio). Da quel momento solo pareggi e sconfitte, le ultime due interne e dolorosissime: quella col Napoli perché avviene per mano (o meglio, per testa) di Policano in versione “core ‘ngrato” e quella con l’Inter per tutto il gioco costruito che avrebbe reso addirittura stretto un pareggio.
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Risucchiati a metà classifica, per i nostri il quarto di finale di andata contro la Lazio potrebbe essere l’inizio di un rilancio per riprendere il discorso chiuso proprio col successo coi biancocelesti in campionato, ma l’inizio sembrerebbe puntare all’opposto come dimostra un calcio a due in area, fortunatamente senza esito, inopinatamente regalato dopo pochi istanti. Gascoigne, reduce da un rutto in favor di telecamera pochi giorni prima, gioca un primo tempo da Dio del calcio e non lo teniamo in nessun modo. Al 5’ salta Fortunato e crossa da destra: sulla sfera si buttano Marchegiani e Riedle, ma la zampata vincente sulla palla vagante è di Maurizio Neri. Al 35’, dopo due conclusioni insidiose sventate da Marchegiani (una a seguito di un’azione in cui l’inglese danza letteralmente sulla sfera in mezzo a sole maglie granata che sembrano parlare un’altra lingua calcistica per come non riescono a contrastarlo), “Gazza” ubriaca Fusi che, saltato, lo placca da terra, come se fosse un portiere dribblato e non uno dei migliori difensori italiani. Sguizzato (ricordiamoci questo nome) indica il dischetto e Signori trasforma da fermo. Il Toro sembra avere due zampe fuori dal torneo, se non addirittura tre, ma poi succede una cosa.
Luca Fusi è uno che la metà campo la passa poche volte, ma quando succede ne vale la pena. Lo fa, per esempio, se deve ricevere palla sugli sviluppi di un corner e segnare un grandissimo gol dell’ex al Napoli. Oppure lo fa in una serata da sogno contro il Real Madrid, quando si fa trovare pronto sul cross basso di Lentini e manda la Maratona direttamente sulla luna. Oppure lo fa in una serata di fine gennaio, non tanto perché si sente in colpa per aver causato banalmente il rigore del 2-0 laziale, quanto perché il Toro è in fondo a un pozzo e solo chi indossa la fascia da capitano può tirarlo su. E allora Luca Fusi passa la metà campo, nel recupero del primo tempo, quando la Lazio aspetta solo il fischio dell’arbitro per andare a riposo su un comodo vantaggio.
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Fusi raccoglie un pallone ai venticinque metri, sembrerebbe addirittura poter provare il tiro, invece, con eleganza, salta maradonescamente prima Cravero e poi Winter, ritrovandosi in area. Winter prova a tornare su di lui, Luzardi tenta di chiuderlo in scivolata, ma il capitano, cadendo, riesce a toccare eludendo Fiori in uscita. In questa rubrica ho parlato spesso di sliding doors e sono state tutte sliding doors su cui abbiamo sbattuto il muso. Stavolta no. Senza quel gol di Fusi, la Lazio sarebbe andata a riposo tutta tronfia, magari ci sarebbe stato il terzo gol e chissà cos’altro. Con quel gol il Toro riapre partita, qualificazione e, soprattutto, ricomincia a essere quello di inizio stagione. Senza quel gol non avremmo mai alzato la Coppa Italia in quello stesso stadio di lì a cinque mesi. Con quel gol, siglato proprio da chi la solleverà per primo, un pezzo di lieto fine è già scritto e, incredibile a dirsi, una parte di noi sembra saperlo e cambia completamente umore.
Nel secondo tempo è un altro Toro, pimpante, grintoso, con la faccia tosta di alcuni giovani, come il subentrato Della Morte, a guidarlo in avanti per completare la rimonta. Ci va vicino Annoni, con un piazzato deviato da Sclosa che finisce sul palo a Fiori strabattuto, ci va vicino con Fortunato su assist proprio di Della Morte e finalmente ci riesce a 2’ dalla fine. Sulla punizione di Scifo, Fiori si impapera e si fa sfuggire la palla in rete. 2-2 esterno: col gol in trasferta che vale doppio è una mezza vittoria.
La stagione del Toro, come detto, cambia. Iniziamo il girone di ritorno battendo 1-0 Ancona (gran gol di Poggi, ricordiamoci anche questo nome, e un pizzico di fortuna) e Brescia (rigore di Scifo, prima gara di Goveani da presidente e partita nota per il fattaccio Bruno-Raducioiu). Poi riecco la Lazio. Dovrebbe essere anche la mia prima partita in notturna. “Sempre che non ci sia la nebbia” dice mio padre il giorno prima. Il mercoledì, nel tardo pomeriggio, un nebbione allucinante scende su Torino. Si gioca lo stesso, ma il mio appuntamento col Toro di sera è rinviato e invece di essere su un freddo seggiolino seguo la gara nel letto con le cuffie: avrei fatto cambio subito.
Nebbia quindi: i tifosi della Maratona vengono trasferiti in tribuna e vedono bene l’infortunio con cui Aloisi purtroppo conclude anzitempo la sua stagione granata. Si vede bene anche la scriteriata testata di Bacci su Aguilera che lascia i biancocelesti in dieci alla mezzora e, a proposito di capocciate immotivate, Luzardi al 45’ infila imparabilmente Orsi di testa per l’1-0 del Toro. Ripresa: Signori si procura un rigore, ma Marchegiani lo para. La difesa della Lazio è in vena di regali: al 62’ è determinante il tocco di Bergodi per il raddoppio di Casagrande e al 77’ Sordo riceve palla da un errato disimpegno di Luzardi, vince una carambola con Marcolin e triplica. “Goleada” declama la voce di Fabrizio Bellone alla radio. Mi rilasso, chiudo gli occhi in un semi-dormiveglia godendomi un tranquillo finale o almeno così credo, perché nella nebbia sempre più fitta Signori e Winter segnano all’84’ e all’86’ riaprendo tutto in una situazione ai confini con la realtà. I miei occhi diventano due fanali quando la Lazio può usufruire di un calcio di punizione in quel folle finale, ma il 3-3 non arriva. In compenso, arriva la semifinale di Coppa Italia. E non una qualunque: il derby.
Nel doppio confronto per una volta sembriamo proprio noi i favoriti e non solo per il punto di vantaggio sui bianconeri, ma perché siamo più squadra, concreti senza disdegnare, ogni tanto, di essere anche belli. Per il calendario giochiamo in casa. Il primo tempo sembra confermare quanto espresso sulla carta, ma non la buttiamo dentro. Per esempio devo ancora capire adesso come abbia fatto Torricelli a respingere sulla linea un colpo di testa di Casagrande. A inizio ripresa, però, Sergio stende De Marchi e Nicchi, dopo averne negato uno a Casagrande nella prima frazione, concede il giusto rigore alla Juventus con Baggio che trasforma. Ma quindi neanche quando siamo favoriti e giochiamo meglio si può stare tranquilli? Ovvio: no. Serve un amuleto, un feticcio, qualcosa. Entra al 60’, si chiama Paolo come qualcuno che a solo sentirlo nominare costringe i gobbi a cercare il bagno più vicino. Ci ha fatto vincere ad Ancona e ci ha fatto vincere a Genova con la Samp tre giorni prima. Il boato della Maratona quando rileva Sergio lo rende l’Eletto: dal Venezia al derby della Mole, Paolo Poggi sta per diventare l’uomo del destino, il giustiziere dei cugini. Al 79’ Annoni prova a entrare in area con caparbietà da destra e, pur perdendo l’equilibrio, manda in confusione la difesa e fa rotolare la sfera verso Scifo che crossa, Casagrande rimette al centro di testa, c’è una deviazione, ma, soprattutto c’è Poggi che si coordina e va a colpire al volo di sinistro con una naturalezza che sembra rendere accessibile a tutti un gesto enorme. 1-1 in casa, sta stretto. Serve un pari con gol o una vittoria per la finale.
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A proposito di finale, dall’altra parte del tabellone c’è Roma-Milan. In molti, di fatto, credono che per i rossoneri, ormai con lo scudetto in tasca, la semifinale sia una formalità, tanto sono imbattibili, anzi, dobbiamo essere tutti contenti, perché se passiamo e incontriamo la squadra di Capello si andrà in Coppa delle Coppe, che importa se non alzeremo noi il trofeo. Ecco, no. No. Bella, eh, la Coppa delle Coppe, ma che gusto può avere se il trofeo per cui dovresti andarci lo solleva Baresi e non Fusi? La Roma sembra ascoltarci e vince 2-0 all’andata, poi resiste al ritorno (sconfitta 1-0 e rigore fallito da Papin). Molto meglio così.
Il derby di ritorno parte male per il Toro: l’1-0 è riassumibile con una parola di quattro lettere su cui ci si siede (acrobazia di Conte, palla che picchia sulla traversa e poi addosso a Marchegiani prima di entrare), ma i granata non demordono e attaccano. Mondonico anticipa il cambio Sergio-Poggi subito dopo l’intervallo e già al 52’ si riscuotono i dividendi: Annoni crossa dalla trequarti destra e Paolino (sì, Paolino) colpisce al volo di sinistro in una maniera meravigliosa (per me, da quella sera, tirare al volo col mancino è quella cosa lì), incrociando in modo imparabile per Peruzzi, facendo impazzire di gioia un popolo, regalandosi una corsa sotto la Maratona e diventando ufficialmente lo spauracchio dei bianconeri. Quando sarà all’Udinese, in uno spareggio per andare in Uefa, sempre al “Delle Alpi”, sarà proprio un suo gol a costringere la Juventus all’Intertoto. Alcuni amici gli avevano consigliato goliardicamente di mettere la nostra maglia sotto quella friulana, ma Poggi racconta, ridendo, di aver rifiutato perché sarebbe stato troppo. Non importa, il suo dovere l’ha fatto anche lì.
1-1, si andrebbe ai supplementari. Ma poi, nel giro di un minuto, cambia di nuovo tutto. Al 62’ Torricelli vince un rimpallo con Sordo e mette Ravanelli in condizione di superare Marchegiani in uscita. Passerebbero loro. La leggenda vuole che, il sempre morigerato Penna Bianca, sia ancora girato verso la sua curva a esultare quando battiamo il calcio d’inizio. Si perde delle cose: Annoni che crossa più o meno dalla stessa posizione in cui l’ha fatto per l’1-1 verso una area piena di granata, come dovrebbe sempre essere. Poggi è libero di appoggiare di testa Casagrande, Walter stoppa col petto e fa proseguire per Aguilera che arriva come un proiettile. Sempre la leggenda vuole che Ravanelli si giri ora verso la Maratona, giusto per vedere il tiro di Pato che entra in porta nonostante il disperato tocco di Peruzzi in uscita. Il numero undici bianconero si inginocchia al suolo, noi voliamo impazziti sotto la curva, perché col 2-2 passiamo.
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Il finale è lungo, ma capita poco o nulla, se non un Daniele Fortunato sontuoso a centrocampo e Vialli che prova a prendersi un rigore. I minuti passano lenti, ma passano. Il recupero è infinito. Sguizzato (di nuovo questo nome) non fischia mai, poi alla fine si deve arrendere e lo fa per tre volte. Toro in finale di Coppa Italia. Si gioca il 12 e il 19 giugno, quella sera è il 31 marzo: un’eternità.
Giugno arriva. La testa alla finale di Coppa Italia, però, non fa bene al Toro che colleziona una serie impressionante di pareggi e una sola vittoria, guarda caso in trasferta contro la Roma, in un folle 5-4 con tripletta di Aguilera (due su punizione) e un rigore inesistente per i giallorossi (ricordiamoci pure questo). Purtroppo c’è anche un mortificante 5-0 interno contro il Cagliari da registrare. I granata finiscono noni, ma la finale di Coppa Italia è tutta un’altra storia.
A proposito di altre storie viene in mente il 1979/80 dove il Toro arriva in finale con quattro 0-0 battendo ai rigori la Lazio e la Juventus: stesso cammino, diverse modalità. Il quinto 0-0 sarà nella gara secca dell’Olimpico proprio contro la Roma e, dal dischetto, riscrivemmo il concetto di buttare nel cesso una coppa. Sì, stavolta dev’essere proprio un’altra storia.
La prima è al “Delle Alpi”. Lo striscione del Toro che fa una determinata cosa con una certa parte del corpo alla Lupa è il benvenuto della Maratona alla diretta televisiva. Cominciamo subito a bombardare Fimiani, portiere della Primavera che si gioca l’occasione della vita per la doppia squalifica di Cervone e Zinetti, decisamente calienti dopo la semifinale col Milan. Il giovane è subito costretto a una doppia parata su Venturin e Annoni, ma al 17’ capitola. Passaggio di Aguilera per Silenzi che inizia a essere l’eroe della doppia finale con un diagonale vincente rasoterra. Benedetti la tocca impercettibilmente, oggi sarebbe gol di Pennellone, nel nostro cuore è gol suo. La Maratona che sembra ingoiare l’universo col suo boato pure. 1-0.
Il primo tempo scorre nervoso, si tira per lo più da fuori, Marchegiani ha le mani più viscide di quanto siamo abituati a vederlo. L’intervallo non è una cattiva idea e nella ripresa, infatti, è un Toro più sciolto, come quello di inizio gara. Come se sapesse che l’1-0 è un rischio, come se sentisse già puzza di zolfo. Il primo a farci paura, in realtà è Giannini che, lanciato da Rizzitelli, tira sulla faccia di Marchegiani e poi, con un estemporaneo tacco volante in caduta, sfiora la traversa e un gol da raccontare ai nipoti. Poi, però, siamo solo noi. Al 52’ Aguilera batte una punizione in area, mister utilità Fortunato fa la torre e Cois, subentrato ad Annoni, trova il momento migliore per il suo primo centro con la maglia granata. 2-0, bell’ipoteca in teoria, ma non basta se stai per finire in un girone dantesco. Attacchiamo ancora. Venturin fa un numero allucinante, entrando in area in corsa su tocco di Scifo e provando un pallonetto che esce di niente. Poi, al 78’, sono tre: Fortunato tenta, su azione d’angolo, la torre per Aguilera, la difesa ribatte e allora si mette in proprio, al volo di destro, quasi dalla linea di fondo, mettendola nell’unico spazio disponibile ed esultando come se fosse tutto normale, non un 3-0 che potrebbe ipotecare la coppa. Mondonico che dice”sì” guardando il cielo è un distillato di felicità, forse la più bella immagine del suo quadriennio con noi. Il senso di gioia che ho provato al termine di quella gara, sapendo che la coppa era lì, è quanto di più puro possa provare un tifoso. Non so quante volte mi sia sentito così, ma, tornando da casa di mia nonna dove vidi la gara, so che non stavo camminando. Volavo.
“Siamo venuti a prenderci la coppa”, questo è lo striscione che campeggia nel settore ospiti dello Stadio Olimpico. Un messaggio chiaro, sfrontato, sicuro. Messaggi più sinistri, invece, girano su alcuni volantini destinati alla tribuna, dove si viene invitati a una festa dopo il match per festeggiare la coppa. Va bene che la speranza è l’ultima a morire, ma come si può essere sicuri di festeggiare una coppa partendo da 0-3? Forse c’è qualcosa che ci sfugge, qualcosa che non sappiamo e dire che una vita di bastonate dovrebbe averci insegnato parecchio, ma forse una cosa del genere è troppo anche per un animo tristemente allenato.
L’inferno comincia quando Sguizzato (l’avevate memorizzato il nome, vero?) fischia l’inizio di quella che sarà anche la sua ultima partita in carriera e vorrà proprio farsi ricordare. Inizia al 20’ quando, su un pallone ricacciato di testa in area da Giannini, Carnevale lo insegue con Cois a fianco e poi, realizzato che è troppo lontano, decide di cadere. Rigore. Le facce dei nostri sono tra lo schifato e l’incredulo, il labiale di Mondonico, mai così rabbioso, è vietato ai minori. Giannini trasforma il regalo. Abbiamo capito dove siamo finiti. Lo hanno capito anche i telecronisti, pur con tutta la diplomazia del caso con cui commentano l’inesistenza del penalty. Iniziano principi di rissa un po’ ovunque, Giannini commette un fallo pessimo su Scifo e Sguizzato non può esimersi dall’ammonirlo. Nonostante questo il Toro ha la testa fredda e nel recupero del primo tempo sembra mandare in briciole il piano della Roma: Scifo triangola con Sordo e trova Silenzi che controlla e, in diagonale, mette quattro gol tra noi e loro. Ed è lì che, dopo 45’ di apnea, sbaglio. Ed è lì che sbagliamo tutti. Crediamo che sia fatta. Invece le fiamme dell’inferno sono ancora lì pronte a ghermirci e a fischiarci contro di tutto. Quei volantini non vogliono saperne di bruciare.
Inizia la ripresa e nel giro di 5’ prendiamo due gol: Rizzitelli di testa su angolo e Giannini con un altro rigore, che stavolta c’è (Mussi su Hassler). La testa torna fredda al 53’: punizione di Scifo, torre di Fortunato e Silenzi svetta su Benedetti, scavalcando Fimiani non proprio ben piazzato. Roma 3 Toro 2, devono farcene tre. Continuano le risse, Piacentini nomina Dio invano dopo un contrasto con Fusi e poi arriva un altro fischio in soccorso. Carnevale si avvinghia a Cois, entra in area e appena sente il tocco del granata si rituffa: rigore già coraggioso da dare se non ne hai assegnato nessuno, se sei al terzo non esistono aggettivi proponibili. Le braccia dei nostri sono per aria o in testa, Mondo non si incazza neanche più. Giannini trasforma ancora. Due gol separano il Toro dalla beffa e diventano uno quando Mihajlovic fa il quinto con una punizione capolavoro al 65’.
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Siamo all’inferno, il sesto gol sembra inevitabile, ma a quel punto scatta qualcosa. Il dio del calcio si accorge che anche per noi perdere in modo simile sarebbe troppo. Il terrore di prendere il sesto, col passare dei minuti, diventa la folle certezza che non lo prenderemo. Ho solo dei flash. Cois che spazza qualunque pallone capiti a tiro. Marchegiani che fa un miracolo su Benedetti. Il palo di Giannini. Il recupero infinito. Siamo tutti in campo e cerchiamo in ogni modo di non fargli fare quel maledetto sesto. Se Sguizzato provasse a dare un quarto rigore, una mano invisibile gli butterebbe via il fischietto. I tifosi della Roma, che tendenzialmente non mi sono particolarmente antipatici, hanno spesso costruito la retorica della coppa che va verso l’altra curva, del mai una gioia: se tutte le altre volte hanno ragione (Roma-Liverpool fa venire il magone anche a me, per dirne una) che stavolta non ci provino nemmeno. Sarebbe posticcio, fittizio, odioso rimpiangere una vittoria che sarebbe stata un furto. Il sesto non arriva, abbiamo vinto. Siamo scottati, bruciati, ustionati. Siamo usciti dall’inferno con la coppa in mano e quando Luca la alza, scompare tutto. Scompare il pallonetto di Salsano, le tre finali perse a inizio anni 80, “Grazie Roma” che fanno echeggiare credendo di farci un dispetto, i due rigori osceni su tre, i volantini. C’è solo Luca con la coppa e poi Andrea, Daniele, Pato, Pasquale, tutti gli altri. C’è Emiliano in disparte, spossato. C’è solo il Toro con una coppa in mano e un settore ospiti impazzito. Ci sono io che stavo sostenendo gli esami di terza media pensando solo a questa coppa e che quando un mio professore mi farà il pippone proprio per il mio pensare a questo con tanto trasporto vorrei solo dirgli (oltre al fatto che alla fine avevo preso “distinto” che non era mica un brutto voto) che mi fa tanta tristezza, senza nessun livore, perché non potrà mai capire che cos’ho provato quella sera e non capirà mai cosa sto provando ora, trent’anni dopo a ripensarci e cosa proverò ogni volta che nella mia mente ricorderò quella coppa contro tutto e contro tutti.
Classe 1979, tifoso del Toro dal 1985 grazie a Junior (o meglio, a una sua figurina). Il primo ricordo un gol di Pusceddu a San Siro, la prima incazzatura l’eliminazione col Tirol, nutro un culto laico per Policano, Lentini e…Marinelli. A volte penso alla traversa di Sordo e capisco che non mi è ancora passata.
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