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Venezia-Toro 0-1: anno zero
Giuseppe Moro è uno dei portieri più incredibili della sua epoca. Genio e sregolatezza, prodezze e papere, non sapevi mai cosa aspettarti e sicuramente non lasciava indifferenti. Sui rigori era un fenomeno, tanto che, ai tempi della Sampdoria, i giocatori del Bologna fecero la conta per decidere chi dovesse affrontarlo dopo un penalty assegnato a loro favore. La parte oscura riguarda alcuni errori così grandi da sembrare spesso voluti, per ripicca verso dirigenti che lo stavano criticando o peggio. Deve difendere la porta che era di Bacigalupo, quindi gli tocca il numero uno.
Piero Bersia ha giocato a fianco degli Invincibili in amichevole ed è sceso in campo in una delle quattro partite dopo il Quattro Maggio, quelle con i giovani dal cuore gonfio di commozione e di responsabilità per sostituire chi non c’era più. Veste la maglia numero due, quella di Aldo Ballarin. Raffaele Cuscela è nato a Taranto, ma la sua fortuna sarà in Piemonte. Quando allenerà la Pro Vercelli vincerà uno spareggio per salire in C grazie alla monetina: giocando a Torino non poteva che avere la fortuna dalla sua visto che nella Torino granata conterà più di cento presenze indossando anche la fascia da capitano. Ha il numero tre sulla schiena che fino a poche settimane prima era cosa di Virgilio Maroso. Un buon motivo per non disertare anche se ha trentotto di febbre.
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Teobaldo Depetrini era nella Juventus del Quinquennio, ma adesso ha attraversato il Po per giocare il derby nella parte di Torino che più amiamo: gli tocca la quattro di Grezar. Cesare Nay indossa la cinque di Rigamonti. È un muro, durissimo per gli attaccanti avversari quanto dolcissimo nel privato familiare. L’amore con sua moglie nasce da due finestre confinanti, sotto il naso degli ignari vicini di casa, mentre non si capisce dove sia nata la sua passione per la scaramanzia visti i numerosi rituali operati prima delle partite, ma i compagni lo lasciano fare volentieri visto che, quando non vengono osservati, si perde. Lando Macchi doveva partire per Lisbona, ma non lo fece per problemi col passaporto e adesso è lui a portare la numero sei di Castigliano.
Ha il sette di Menti, ma non ha la potenza del suo tiro. D’altronde chi ce l’ha? Attilio Frizzi ha un modo tutto suo di giocare: lo chiamano “Pattinella” per come trascinava i piedi per terra negli uno contro uno, come se indossasse le pattine, e il suo modo di calciare i rigori, fermandosi prima di tirare, costringerà a cambiare le regole sulla rincorsa per i tiri dal dischetto.
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Dall’Argentina è arrivato il fenomenale Beniamino Santos. Col suo tiro al fulmicotone e forse sarebbe stato adatto a indossare la maglia del Toro anche nelle stagioni precedenti. Chiusa la carriera da giocatore si siede in panchina, anche sulla nostra. Sono i primi anni sessanta e fa debuttare un sacco di giovani interessanti, ma quello più forte lo lancerà da un’altra panchina, quella del Genoa, anche se, in un certo senso, lo farà anche per noi: il suo nome è Gigi Meroni. Amatissimo umanamente, oltre che calcisticamente, trova una fine tragica a soli quarant’anni in un incidente stradale, andando a sbattere contro un albero. Ma in quel momento la morte è ancora lontana, bisogna mettere la otto di Loik.
Beppe Marchetto segna tre gol nelle prime cinque partite in granata, ma nonostante questo viene messo da parte e, un paio d’anni dopo, lascia il Toro per iniziare un lungo giro d’Italia calcistico. Ha troppo Filadelfia dentro per non ritornare e lo farà da allenatore delle giovanili e da maestro di tecnica visto che a volte veniva chiamato ai piani più alti per qualche intervento mirato, per esempio per far migliorare un certo Claudio Sala sui cross. Visto cos’è diventato il Poeta la missione può dirsi compiuta. Giuseppe indossa la casacca numero nove di Gabetto.
Ludovico Tubaro, nel momento in cui scrivo, è ancora vivo. Classe 1927, l’elisir di lunga vita potrebbe essere legato a dover portare un numero da far tremare i polsi: il dieci di Valentino Mazzola. Riccardo Carapellese indossa la fascia da capitano e sarà il giocatore del Toro con più gol ai mondiali (due nella sfortunata spedizione del 1950). Al Milan ha la media di un gol ogni due partite o quasi, da noi uno ogni tre e mezzo. Non male. L’undici di Ossola è suo.
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Moro; Bersia, Cuscela; Depetrini, Nay, Macchi; Frizzi, Santos, Marchetto, Tubaro, Carapellese. Sono questi gli undici, con Giuseppe Bigogno allenatore e Roberto Copernico direttore tecnico, che giocano la prima partita del campionato 1949/50. Il primo campionato dopo la tragedia di Superga. Il campo su cui inizia la stagione sembra deciso dal destino: il Penzo di Venezia. Lì giocavano Ezio Loik e Valentino Mazzola che Novo decide di acquistare dopo una sconfitta in laguna che compromette il campionato 1941/42, ma porrà le basi per i trionfi futuri.
In campo senza lo scudetto sul petto e col lutto al braccio, il Toro ha l’unico accenno di tricolore sulla fascia di Carapellese. Dopo circa mezzora arriva la possibile svolta della partita: l’arbitro Orlandini di Roma fischia un calcio di rigore in favore del Venezia per un mani di Macchi sugli sviluppi di un corner. L’esperto Degano si presenta sul dischetto e si ritrova occhi negli occhi con Bepi Moro che non sta fermo un attimo, indica il pallone e mette in scena un rito propiziatorio che ha del mistico. Quando l’arbitro fischia Moro fa finta di buttarsi da una parte e il numero undici avversario prova a fregarlo con un tiro centrale, ma l’incantesimo precedente ha funzionato perché la conclusione è troppo lenta. Il portiere granata ha il guizzo per rimettersi in giusta posizione e respingere: si resta 0-0. La domenica successiva Moro ipnotizzerà niente meno che Silvio Piola e la leggenda narra che, seduto ai tavolini del bar Vittoria, spiegò ai numerosissimi appassionati, tanti da bloccare la circolazione in via Roma, la filosofia dei rigori parati provando a rispondere all’annoso dilemma sui meriti dei portieri e i demeriti dei tiratori.
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Col passare dei minuti il Toro prende sempre più campo e dalla panchina rimescolano le posizioni in avanti per provare a vincere la partita. Carapellese parte in slalom, si allarga a destra e poi, improvvisamente, punta verso il centro. La palla arriva a Marchetto che dimostra la sua grande tecnica con un colpo di tacco che libera al tiro Beniamino Santos. L’argentino aveva avuto un paio di opportunità sul mancino che non è il piede preferito, ma stavolta la sfera arriva sul destro. Bolide imparabile per il portiere Griffanti e, a 4’ dalla fine, il risultato è Venezia zero Torino uno. Non cambierà più.
Il primo campionato dopo Superga, l’inizio di una nuova era per il Toro tanto dura quanto, per certi versi, eroica inizia con una vittoria su un campo che non espugnavamo dal 1943. Sarà un’annata di montagne russe fra goleade rifilate e subite e un sesto posto che avrà dell’incredibile visto che si parla di una squadra tutta nuova. Il miglior marcatore sarà proprio Beniamino Santos con ventisette reti, quindi Carapellese con sedici, Frizzi con undici e lo svedese Par Bengtsson, assente al debutto, con dieci. Il Toro, però, respira ancora, è vivo, nonostante la spada di dolore che trafigge tutti i nostri cuori in primis quello di Ferruccio Novo. Ci sarà tempo per tante battaglie sportive e per una tifoseria che, capito il momento, si fonderà sempre di più coi gradoni del Filadelfia e con la Fossa dei Leoni per essere dodicesimo uomo in un momento in cui la squadra ha più bisogno che mai. Quasi come se ci sentissimo in debito e dovessimo restituire qualcosa. È iniziato l’anno uno e l’unica cosa da dire, tirando indietro le ultime lacrime, è Forza Toro.
Classe 1979, tifoso del Toro dal 1985 grazie a Junior (o meglio, a una sua figurina). Il primo ricordo un gol di Pusceddu a San Siro, la prima incazzatura l'eliminazione col Tirol, nutro un culto laico per Policano, Lentini e...Marinelli. A volte penso alla traversa di Sordo e capisco che non mi è ancora passata.
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