Niente più profumo dell’erba del campo appena bagnato, niente più ritrovarsi il sabato allo stadio per sentirsi una comunità, niente più sogni reali per chi nella vita spesso ha poco più del niente. Ecco allora gli uffici marketing dei club teorizzare strategie da “salotto” (dimenticatevi lo stadio come lo si conosceva) per vendere il calcio ormai diventato “prodotto” alla stessa stregua di una merce pensata per soddisfare un bisogno, a volte persino creato artificialmente (è bizzarro fino al patetico, vedere come vogliano convincere noi tifosi a comprare un prodotto di cui siamo già convinti della sua bontà. Non vorranno davvero convincermi che è bello tifare Machester United? Ma io sono già contento di tifare Manchester United!). In questa situazione di puro business(ricordate la logica della franchigia in cui ho parlato nella mia lettera aperta al presidente dell’UEFA?) è semplicemente mera utopia pensare che i tifosi possano essere chiamati ad essere parte attiva dei loro club di riferimento. Il calcio nasce per essere uno sport popolare, per tutti coloro che potevano e possono immaginare una traiettoria che finisce tra i pali di una porta di uno stadio o tra due pietre che delimitano la zona del gol in un piccolo campo di periferia di ogni parte del mondo. Limitare l’ingresso ad uno stadio per una questione di reddito è una delle cose più tristi accadute nel mio Paese. Temo che questa politica dell’espellere le classi più popolari dalla vita dello stadio stia per prendere piede anche in Italia. Il famoso modello Premier League sta avendo sempre più fan tra i presidenti/padroni dei club della Serie A.