"Tutti erano convinti che dopo aver vinto 3 a 0 all’andata il ritorno sarebbe stato una passeggiata. Io, invece, sentivo che stava per succedere qualcosa d’incredibile. Se l’anno prima avevamo preso tre pali nella finale di Coppa Uefa, chissà questa volta quale record dell’assurdo avremmo battuto?
columnist
Dedicato ai piccoli cuori granata
Si giocava di sabato: i miei amici si erano dati appuntamento a casa di Gaetano, ma io rifiutai l’invito. Non volevo vedere nulla. Avevo calcolato tutto per non assistere a un solo attimo della partita. Uscii di casa quando i giocatori entravano in campo, montai in macchina e mi ripromisi di impiegare 45 minuti per arrivare in Piazza San Carlo, dove avevano allestito un maxischermo.
Andavo a passo d’uomo. Decisi di passare dalla collina, decine di chilometri con il motore che si arrampicava sulla salita e la mia fantasia incollata alle gradinate dell’Olimpico di Roma. Era già trascorsa mezz’ora e la mia mente era una pallina da flipper scalciata a destra e a sinistra da mille congetture diverse. Finalmente arrivai in centro, parcheggiai e mi avviai verso la piazza. Una marea di gente con il naso all’insù era a qualche passo da me.
Non feci in tempo a pensare a nient’altro, il volume della piazza aumentò, alzai la testa verso lo schermo, Silenzi, tiro, rete. Un boato. Mi gettai nella bolgia per abbracciare tutti, per chiedere il risultato: “Ha segnato la Roma su rigore e adesso ha pareggiato Silenzi”.
L’arbitro fischiò la fine del primo tempo. Per perdere la coppa dovevamo subire 4 gol in 45 minuti senza neanche farne uno, quasi impossibile, ma non volli vedere nemmeno il secondo tempo e andai al cinema: sarei rimasto in sala una cinquantina di minuti, giusto in tempo per uscire a partita terminata.
Mi incamminai verso Piazza Castello ed entrai al cinema Romano. Non ricordo una sola immagine di quanto vidi. Guardavo continuamente l’ora. Solo dopo qualche giorno scoprii che il film era “Come l’acqua per il cioccolato”. Alle 22,20 in punto uscii dalla sala. Ero in strada e cristo santo Torino era muta. Mi diressi verso Piazza San Carlo. Sotto i portici nessuno, in lontananza scorgevo una marea di teste immobili. Un signore di una certa età era seduto sul gradino di un negozio, la sciarpa granata al collo e la testa fra le mani.
“Mi scusi, quanto sono?” gli domandai.
Lui alzò gli occhi, mi fissò per alcuni secondi e poi: “5 a 2 per la Roma. E mancano ancora dieci minuti alla fine perché il secondo tempo è iniziato in ritardo. Se ci fanno un altro gol siamo fottuti”.
Traballai. Maledissi me e la vita. E adesso? Conoscevo troppo bene il Toro per sperare che riuscissimo a resistere fino alla fine. Andai verso la macchina ripetendo come uno scioglilingua – avevo ragione è una squadra maledetta è una squadra bastarda non voglio perderci più un secondo avevo ragione è una squadra maledetta…. -. Non avevo dubbi: all’ultimo minuto del recupero avremmo preso la mazzata.
Tornai a casa molto lentamente. Nessuno in giro, non una bandiera, non un clacson. Posteggiai, chiusi a chiave la portiera e… “Eccolo lì il granata - era la voce di Aldo, l’amico gobbo che abitava di fronte -. Voi del Toro avete un culo da fare schifo”.
Non capivo, alzai lo sguardo. Era appoggiato al davanzale. Dalla bocca, come un lamento, mi uscì “Cos’è successo?”.
“E’ successo che avete beccato 5 a 2 e verso la fine Giannini ha preso un palo”.
Il cuore mi si aprì come un paracadute: “E’ finita?”
Aldo fece cenno di sì. Poi mi disse: “Vieni su a vedere la premiazione. Dai, sali, la prossima volta che uno del Toro solleva una coppa sarai all’ospizio”.
Ce l’avevamo fatta. Il sesto gol non era arrivato.
Solo allora seppi che Sguizzato aveva dato altri due rigori alla Roma – 3 rigori contro in una finale, ecco il record dell’assurdo che ci mancava – e aveva fatto giocare 12 minuti di recupero.
Fu così che il Torino vinse la sua quinta Coppa Italia e in una serata romana spezzò un incantesimo che durava dal 1976 esorcizzando una fattura lunga 17 anni, 3 secondi posti in campionato, 4 finali di Coppa Italia e 1 finale di Coppa Uefa perse. Quel sortilegio fu duro a morire, e soltanto al termine di una partita allucinante la notte torno a piegarsi ai desideri del popolo granata.
Poi iniziò la festa: cinquantamila tifosi invasero il centro e in settemila occuparono l’aeroporto di Caselle in attesa di ritorno dei giocatori. Fu un delirio granata”.
Stendo un velo pietoso su quanto visto ieri. Il film è il solito: società perdente che da 14 anni galleggia nella mediocrità più assoluta; allenatore surreale che parla di partita stregata quando non si è tirato una sola volta in porta; giocatori con grinta da bocciofila; curva Maratona che a fine partita applaude commossa l’ennesima vergogna.
Dedico questa pagina, tratta dal mio romanzo “Belli e dannati ” del 1998, a tutti i piccoli cuori granata che soffrono per il Toro e sono simboleggiati dai due recentemente inquadrati in lacrime dalla tivù: il primo dopo il pareggio del Sassuolo all’ultimo minuto; il secondo ieri, dopo l’eliminazione dalla Coppa Italia.
Bambini, vi auguro con tutto il cuore di vivere almeno una volta nella vita una notte come quella del 19 giugno 1993. Lo meritate più di chiunque altro. Tenete duro. Succederà. Non sappiamo dirvi come e quando, ma succederà. Ve lo promettiamo.
Marco Cassardo, esperto in psicologia dello sport e mental coach professionista.
E’ l’autore di “Belli e dannati”, best seller della letteratura granata.
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