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Dopo Passione e Liberazione, il Milan

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Sotto le granate / Torna l’appuntamento con la rubrica di Maria Grazia Nemour: "La mentalità vincente che giustamente pretendiamo dalla squadra e di cui si fa un gran parlare, applichiamola innanzitutto al nostro modo di essere tifosi"
Maria Grazia Nemour

È stato un sabato di Passione quello prima di Pasqua, non c’è dubbio. Sofferenza.

Una partita giocata fino agli scampoli di recupero. Una partita che avevamo già perso, stando ai pessimisti che han gonfiato i commenti del primo, triste, tempo; che avremmo potuto pareggiare, stando alle fucilate sparate contro un Sirigu da portare in trionfo agitando rami di palma, pronto per la beatificazione.

Ma che abbiamo vinto.

Vinto, già. Ansaldi segna un gol che gli spetta di diritto vista l’ottima forma delle ultime settimane, nelle quali ha dato segni di ubiquità: riceve e spara sempre lui il pallone.

Sudore di sangue che ci cola copioso dalla fronte soprattutto quando giochiamo con una squadra dell’ala destra della classifica, perché vogliamo chiarirlo fino in fondo: no no, non sappiamo vincere facile.

D’altra parte, è proprio non dare mai nulla per scontato, il bello di giocare ogni partita. Passione.

Si approntano calcoli di forma e statistiche delle possibilità di ogni azione, ma poi la Lazio perde in casa con un Chievo pronto a traslocare nell’alloggio in serie B. L’Atalanta scardina la porta del San Paolo. Addirittura la juve – che vive di logiche para-calcistiche – perde con la Spal e fatica a vincere in una casa addobbata a festa contro una ardimentosa Fiorentina.

Sono ventidue uomini carichi di variabili, quelli che giocano ogni partita. Quando non giocano anche gli arbitri, chiaro.

Dopo un sabato di Passione, in vista della delicatissima partita da preparare contro il Milan, alleniamoci a vivere un 25 aprile, anzi, una settimana, un anno intero, di Liberazione.

Liberiamoci innanzitutto dai nostri limiti.

Possiamo avere tante cose che ci fanno diversi, dal Mazzarri-pensiero al Cairo-bilancio passando per lo Zaza-astensionismo, ma concentriamoci su quello che ci fa simili: il Toro.

La mentalità vincente che giustamente pretendiamo dalla squadra e di cui si fa un gran parlare, applichiamola innanzitutto al nostro modo di essere tifosi: non ho mai dovuto abbassare gli occhi parlando di Toro, io. Nessun imbarazzo per ladrocinio o razzismo, ampi spazi alla solidarietà, attenzione alla storia. Anche per questo, mi sento vincente.

Se ad agosto mi avessero detto che a fine aprile avremmo avuto ancora i conti aperti con la classifica, avrei detto: ok, dov’è che devo firmare?

Se la Bellezza del Toro 2019 sta nell’essere brutto, va bene. Il Toro è un amico, lo prendi come viene perché quello che ti dà lo sai solo tu cos’è.

Mi accontento? No. Non mi accontento mai.

Penso che ogni protesta che esce dalla bocca di un tifoso che ama a titolo gratuito la propria squadra sia legittima, ma credo anche che lamentarsi sia una delle cose più semplici da fare al mondo – basta leggere un paio di commenti sui social del Venaria Stadium per accorgersi che lo sanno fare davvero tutti, in ogni contesto – mentre vedere quello che di buono c’è, anche se si è arrabbiati o delusi, e continuare a spingere per costruire un pezzo in più, è un’impresa difficile. Tifare è un esercizio di fisica quantistica: sposto energia, ma se non è positiva, che tifo a fare?

Liberiamoci dalle critiche che ci rimpiccioliscono e concentriamoci su quelle che domenica ci potranno far giocare la migliore partita che possiamo interpretare.

 

 

Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.

 

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