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Dopo Superga, nessuna squadra volle più salire su un aereo

Stefano Budicin
Nel segno del Toro / Il dolore era stato troppo grande, e la scaramanzia, inevitabile sfogo di una psiche incapace di secernere da un evento traumatico dosi sufficienti di razionalità, non poteva che seguirne

Il disastro subito dal Grande Torino ebbe pertanto un'eco spaventosa che riverberò tra le prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo. Franco Ossola, nel suo “La Storia del Grande Torino in 501 domande e risposte”, riporta dell’evento la denominazione “Sindrome di Superga”, perché di sindrome si parlò e per parecchio tempo. Ad esempio nel giugno del 1950. A un anno dall'avvenimento nefasto, la Nazionale italiana doveva raggiungere il Brasile per giocare la finale del Campionato del Mondo. Naturalmente, quasi tutti gli azzurri rifiutarono di compiere la trasferta in aereo, costringendo la Federazione a selezionare il piroscafo Sises quale mezzo di trasporto privilegiato. La scelta, dettata dal panico, è commisurata anche al fatto che, all'epoca, le trasvolate intercontinentali non erano certo pane quotidiano per nessuno.

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Ad ogni modo la Sises era pronta per salpare dal porto di Napoli. La Nazionale partì sotto uno scroscio di tumultuosi applausi. Ovunque regnava un sentimento di orgoglio e di speranza nei confronti di una squadra che avrebbe dovuto replicare i fasti del 1938, anno che valse ai nostri il titolo mondiale.

Valga, a proposito della trasferta, la testimonianza di Giovanni Brera:

"Poi si parte, con la maledetta Si­ses, e io m’illudo che il forzato ri­poso abbia sugli azzurri lo stesso effetto che ebbe su Luigi Beccali in viaggio per i Giochi di Los An­geles, dove trionfò sui 1500 metri. Gli azzurri hanno un duro campionato alle spalle (38 partite e il resto): la preatletica sul ponte e le ventate di iodio non potranno che ritemprarli… Durante la traversa­ta – nefas auspicium – tutti i palloni cadono in mare. Lo sbar­co a Santos avviene in casco co­loniale, neanche ci si apprestasse a risalire il Niger. I facchini negri si rifiutano di scaricare il baga­glio di quei cafoni che si ritengo­no in colonia. Il giorno dopo, a San Paolo, Sperone pensa bene di far smaltire ogni ruggine ai suoi pupilli sottoponendoli a una mas­sacrata senza mercè. Sono dunque tutti imbastiti, quei poverini, quando scendono in campo per affrontare la Svezia".

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La traversata, che a un semplice turista sarebbe parsa serena e idilliaca, si rivelò per i calciatori un vero e proprio problema, soprattutto sul piano della preparazione atletica. Gli strumenti per allenarsi deficitavano, e lo spazio non poteva offrire granché. Al mattino, gli azzurri si radunavano sul ponte di prima per impratichirsi con palloni leggeri, che il vento a volte portava via facendo precipitare in mare.

Non andò bene neppure la sistemazione scelta per la squadra, perché l'albergo di lusso dove la nazionale andò a riposarsi, a San Paolo, ospitava in quel periodo le componenti di un corpo di ballo argentino di ineludibile bellezza. Distrazioni assicurate in un momento che doveva servire agli atleti per riposarsi e concentrarsi unicamente sulla partita. Complice anche la notte di San Giovanni, il 24 giugno, la squadra della Nazionale si ritrovò sul campo da gioco in condizioni fisiche pessime: fiato corto, muscoli arrugginiti, maldestrezza, una cupa e sostanziale impreparazione di fondo. Il risultato? Un orrido 3 a 2 per la Svezia.

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Secondo le parole di Giampiero Boniperti "L'effetto Superga era ancora nei nostri animi. La catastrofe aveva inciso profondamente non solo sul calcio italiano, distruggendo l'ossatura della Nazionale, ma anche nella gente. All'interno e all'esterno dello sport, il trauma fu tremendo e difficile da assorbire. E c'era in tutti la paura di volare. Così i dirigenti federali decisero di rinunciare all'aereo, all'andata. Un grave errore che scontammo sul campo".

Come è necessario che trascorra del tempo per elaborare un trauma dal quale ci si sente oppressi, così fu per la storia granata del dopo ‘49. Dovettero passare molti anni prima che la Sindrome di Superga cessasse di avere potere sul morale dei calciatori e dei tifosi. E ancora oggi, all’appressarsi del 4 maggio di questo 2020 così saturo di brutte notizie, il dolore di quella data pulsa ancora tra le tempie e ancora opprime come un morbo i nostri cuori.

Laureato in Lingue Straniere, scrivo dall’età di undici anni. Adoro viaggiare e ricercare l’eccellenza nelle cose di tutti i giorni. Capricorno ascendente Toro, calmo e paziente e orientato all’ottimismo, scrivo nel segno di una curiosità che non conosce confini.

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