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columnist
Alla buona stagione appena conclusa ne deve “tassativamente” seguire una ancora più bella. Anche nel 2014 si parlava di svolta, di basi importanti, di percorso di crescita, poi in agosto abbiamo sostituito Cerci con Amauri e a gennaio, invece di rinforzare la squadra ancora in lizza per l’Europa League con gente come Ilicic (che sarebbe venuto di corsa ma costava lo “sproposito” di 7/8 milioni) abbiamo preso il leggendario Tata Gonzalez. Doveva essere il momento del definitivo riscatto, invece quell’anno partì l’ennesimo balletto del “voglio ma non posso” che ci portò nei successivi quattro anni a non andare mai oltre al nono posto.
Sarà il prossimo mercato a dire se Cairo ha veramente intenzione di cambiare marcia o se, per l’ennesima volta, saremo costretti a rifugiarsi nelle videocassette dello scudetto del ‘76 o della finale Uefa del ‘92 per vedere qualcosa di inebriante. Le dichiarazioni degli ultimi tempi sono confortanti: trattenere i migliori e inserire tre giocatori di qualità. E mi è piaciuto l’atteggiamento del presidente nei confronti della lobby del calcio a inviti. Non è cosa da tutti i giorni vedere a Torino qualcuno che si scagli contro Agnelli. Chissà che Cairo si sia stufato di essere considerato vincente in tutti i campi ma perdente nel calcio e abbia deciso di rompere gli indugi e fare tutto ciò che è necessario per raggiungere finalmente un obiettivo sportivo.
Ma c’è una cosa che più di tutte tengo a sottolineare: la ritrovata voglia di Toro, quell’elettricità che torna a respirarsi tra noi tifosi, quella sensazione che abbiamo tutti da ieri sera, e cioè un grande vuoto e il desiderio impellente che inizi la nuova stagione. Nelle ultime sette partite casalinghe (Atalanta, Chievo, Bologna, Sampdoria Cagliari, Milan, Sassuolo, Lazio) lo stadio è sempre stato pieno. Da quanti anni non succedeva? Da una vita; certo, molto hanno inciso le promozioni della società, ma non ci sono promozioni che tengano se la squadra non è in grado di trasmettere adrenalina, identità e senso di appartenenza. Abbiamo finalmente ritrovato degli idoli; dal Gallo a Izzo, da Sirigu a Nkoulou. Lo stadio si è riempito di donne e bambini, il granata sta tornando di moda perché sono in tanti, anche tra i più giovani, a rendersi conto che vincere una tappa di montagna con la bici a motore non è il massimo del godimento, anzi è un filino da vigliacchi. Sì, la Juve annoia, così come annoiano Bayern Monaco o Psg e tutte quelle squadre che vincono scudetti senza neanche avere voglia di festeggiarli; il Toro no, il Toro eccita, il Toro sta tornando a essere depositario di tutte le speranze di chi detesta vincere facile e combatte da sempre con potenti e destino avverso.
Ci manca, tuttavia, un tassello fondamentale per diventare protagonisti assoluti degli anni a venire: lo stadio di proprietà. Non possiamo più farne a meno e mi auguro che i media inizino a sollevare il problema in modo insistente e non si limitino a compiacere il presidente parlando solo del record di punti o di quanto sia stata immeritata la mancata qualificazione europea. Come mai non c’è un solo giornalista che ponga a Cairo domande al proposito? Come mai le testate giornalistiche di Torino continuano a parlare di tutto meno che dello stadio di proprietà? “Servizi fiume” sui club di tifosi granata sparsi per l’Italia, sul Robaldo, sulle vecchie glorie del passato, sul Filadelfia da completare e quasi mai aperto al pubblico, sul mercato, ma mai una parola su un tema campale come quello dello stadio di proprietà.
Se ne è accennato qualche volta per dire che il Grande Torino non è uno stadio adatto al calcio, che è sottoposto ai vincoli delle Belle Arti, che la Appendino non vede l’ora di sbolognarcelo, che è nato per le Olimpiadi ecc… E allora? Cosa facciamo? Ci rassegniamo a essere gli unici, tra vent’anni, a giocare in uno stadio piccolo, obsoleto e preso in affitto dal Comune? Il problema va risolto.
Non è uno stadio adatto al calcio? Una soluzione c’è: lo si renda idoneo.
Non è possibile renderlo idoneo? Una soluzione c’è: lo si costruisca altrove.
Esistono dei vincoli della Soprintendenza? Una soluzione c’è; li si superi come si fa in ogni angolo del mondo. Non si scappa; il futuro delle squadre di calcio passa dallo stadio di proprietà. Per tornare realmente competitivi, non possiamo prescindere da un catino da 35mila posti tutto per noi.
Immagino l’obiezione di molti fratelli granata: “Eh, ma a Cairo non interessa investire sul Toro”. Ok, ma attenzione. Cairo è un grande imprenditore e se intuisce un tornaconto economico il discorso cambia. Ha investito un solo milione sul Filadelfia invece dei 3,5 promessi perché non è un tifoso e perché nel Fila non ha mai visto una possibile fonte di introiti. Uno stadio di proprietà sarebbe diverso, sia per quanto significa per una società di calcio dotarsi di una proprietà immobiliare, sia perché genererebbe un aumento esponenziale dei ricavi (biglietti, abbonamenti, merchandising, pubblicità, attività commerciali annesse ecc). Lo stadio di proprietà rende soldi, crea appartenenza e attiva quel circuito virtuoso di business e tifo necessario per competere ad alti livelli.
Come sempre, l’Atalanta fa scuola: per il nuovo Azzurri d’Italia, 35 milioni di investimento e una capienza da 24mila posti di cui 16mila nelle due curve (9100 nella sola curva Pisani, il cuore del tifo). In questo progetto sono contenuti preziosi insegnamenti: costo contenuto, spettatori a ridosso del campo e massima capienza nelle curve (in epoca di crisi economica e di overdose da calcio televisivo, è ovvio che la gente pretenda di pagare poco per l’ingresso allo stadio)
Tutti si muovono: a Cagliari è stato approvato il progetto del nuovo stadio da 30mila posti; a Bologna sta per iniziare l’opera di ammodernamento del Dall’Ara, un po’ ovunque sono al via i lavori per costruire o ammodernare lo stadio, sia presso grandi piazze come Roma e Firenze sia presso piazze di provincia come Pisa o Ferrara o Empoli. Tutti progettano e pensano allo stadio di proprietà; noi no.
Avete presente “il muro giallo” di Dortmund, la Sudtribune? E’ uno spettacolo spaventoso, è la gradinata singola a posti in piedi più grande d’Europa. Ho la fortuna di esserci stato, credetemi, una roba così è in grado di cambiare le domeniche di ogni tifoso.
Allenarsi al Fila, giocare in un’arena tutta nostra e vincere davanti al “Muro Granata”; non riesco a immaginare niente di più bello.
Marco Cassardo, esperto in psicologia dello sport e mental coach professionista.
E’ l’autore di “Belli e dannati”, best seller della letteratura granata
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