“È solo un gioco, una partita di calcio” dice la fidanzata altifoso dell’Arsenal, in una scena del film ‘Febbre a 90’.
columnist
È solo un gioco. Davvero?
Lui la guarda, prima di rispondere: “No, non mi dire così. È la cosa peggiore che potresti dire. Perché mi sembra evidente, che non sia solo un gioco”.
No, non è stata solo una fredda settimana di maggio quella passata, sono stati i giorni che hanno congelato il nostro sogno, un sogno scaldato tra le mani per tutto il girone di ritorno.
L’Atalanta che ha portato nello stadio romano un quarto della sua città, quell’Atalanta che da anni lavora per stupire con mezzi contenuti, finanziariamente molto più limpidadella Lazio, della Roma e naturalmente del Milan, ecco quell’Atalanta non si è portata negli spogliatoi la Coppa, e il nostro sogno si è raffreddato in modo preoccupante. Ma l’ipotermia definitiva del sogno è stata opera nostra, domenica, a Empoli.
Una partita, quella di Empoli, che Moretti nel suo commiato curiosamente annovera tra i tre momenti Toro che rimarranno parte indissolubile della sua avventura umana, insieme a Bilbao e il derby granata.
No, non è solo una partita di calcio.
Domenica, gol dopo gol vedevo che la gente al bar abbandonava la sedia, qualcuno rumorosamente, in preda a scatti d’ira. Io, semplicemente, non potevo credere al risultato.
Non ero arrabbiata, ero svuotata.
Non avevo recriminazioni in bocca, solo tanta delusione in faccia.
Sull’1 a 0 ho pensato, abbiamo tutto il tempo.
Sull’1 a 1 ho pensato, ora Iago fa doppietta.
Sul 2 a 1 ho pensato, sarà meglio valutare che non giocheremo un pomeriggio intero.
Sul 3 a 1 ho pensato, no, non andrà a finire così.
Sul 4 a 1 ho smesso di pensare, tanto per non uscire dal bar con gli occhi lucidi.
Il quasi peggior attacco batte la quasi migliore difesa per 4 a 1.
Si può perdere in modo umiliante per troppa voglia di vincere? Forse. L’ho vissuto ma non lo so spiegare.
Il fatto è che questo campionato del Toro non è stato come quello degli ultimi dieci e più anni, ha sgocciolato emozione fino a tarda primavera. Non è stato un calcio d’altitudine in quanto a bellezza, ma siamo comunque rimasti in otto a giocarci la Champions fino alla penultima partita. È vero che anche questa volta non abbiamo raggiunto la meta, ma…c’è stato il viaggio, perché poi fissare la meta è un pretesto per divertirsi nel viaggio.
Gioca da Toro, abbiamo potuto dire. Abbiamo visto in campo, una partita dopo l’altra, i capitani coraggiosi Belotti e Moretti, Izzo il difensorattaccante, Nkoulou che sembra uscito da un film di Spike Lee, Sirigu dei miracoli, Ansaldi l’onnipresente e Rincon il generale del vino che tingegranata, ecco li abbiamo visti in campo un anno intero e abbiamo potuto dire: quello, gioca da Toro.
Perché poi, a essere sincera, perfino io che per natura il bicchiere lo vedo sempre mezzo pieno – o al limite aggiungo birra – avevo eretto pochi muri del mio castello in aria europeo. Ma devo dire che il campionato mi ha sbronzata ugualmente. Sarà stata la birra. O forse questo Toro. Più la birra.
E se mai capitasse che in Europa ci andassimo al posto del Milan, non sentirei di aver rubato nulla a nessuno. Vincerebbe l’onestà. Brindisi.
Che sia una sconfitta di lava che brucia per 4 a 1 o l’aspettativa della vittoria dell’ultimo colpo di coda in campionato, “No, non è solo una partita di calcio”, ma è il brivido di essere lì, in campo, con la testa confusa da mille preoccupazioni e a spalle uno zaino pieno di sassiaccumulati negli anni, ma il cuore… senza paure. Il brivido di essere lì e dire: io sono Toro. Un Toro che è molto di più,di una partita di calcio.
Mi sono laureata in fantascienze politiche non so più bene quando. In ufficio scrivo avvincenti relazioni a bilanci in dissesto e gozzoviglio nell’associazione “Brigate alimentari”. Collaboro con Shakespeare e ho pubblicato un paio di romanzi. I miei protagonisti sono sempre del Toro, così, tanto per complicargli un po’ la vita.
© RIPRODUZIONE RISERVATA