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Con una speranziella europea non dipendente soltanto dalle nostre possibilità, nell’ultima giornata di campionato, approdiamo in quel di Bergamo per affrontare l’Atalanta.
L’ultima partita della stagione raccoglie e porta con sé tutta una serie di ricordi ed emozioni contrastanti.
Il caldo, il pubblico in festa, i risultati provenienti dagli altri campi, la pioggia torrenziale, l’addio di qualche giocatore, la delusione: la sensazione di vuoto, di abbandono e anche di tristezza che ti accompagnano come se fosse l’ultimo giorno di scuola.
Con uno sforzo di memoria, ricordo Roma nel giorno dello scudetto giallorosso, un’invasione di campo al Delle Alpi, l’attesa per gli incroci dei risultati alla radio, l’addio di Lentini, la delusione per una sconfitta che ti condanna ad una amara retrocessione, oppure i due gol che in una giornata di maggio ti consentono sotto una pioggia feroce, di tornare dove ti compete.
In questo caso, l’ultima di campionato assume un valore fondamentale.
Lo spiraglio europeo è ancora aperto ma non dipende soltanto dall’unico risultato utile a nostra disposizione: la vittoria.
Se abbiamo imparato qualcosa dalle partite dello scorso campionato contro Fiorentina e Inter, lo abbiamo messo in pratica nella partita di una settimana fa all’Olimpico contro il Milan: di fronte ad avversari con la pancia piena o distratti da altri eventi, le occasioni vanno colte e il risultato va portato a casa, senza se e senza ma.
Ça va sans dire, anche domenica dovremo giocare in quel modo, sperando che l'Atalanta ricalchi le orme del Milan...
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Partiamo dall’assunto che per partecipare alla prossima Europa Conference League basterà arrivare noni, sopravanzando il Napoli (o arrivando a pari punti con i campioni d’Italia) a patto che la Fiorentina vinca la finale del 29 maggio contro l’Olympiacos.
La vittoria di ieri sera dei Viola contro il Cagliari, infatti, toglie ogni speranza di arrivare ottavi e di qualificarci direttamente.
Certo è che se Juric porterà a casa la qualificazione compirà un mezzo miracolo alla faccia delle mancanze societarie, dei mercati asfittici, delle difficoltà e del divario mai colmato con le prime della classifica.
Il discorso del tecnico croato sui risultati raggiunti, ovviamente non soddisfa nessun tifoso.
La sua è una contraddizione in termini, perché Juric parla di triennio fantastico ma ricorda che non bastano i decimi posti ad un ambiente e ad una tifoseria che sogna e merita l’Europa.
Eppure, non si può dimenticare da dove questa squadra era partita, o meglio da dove, Juric l’aveva raccolta.
Ha rivalutato alcuni giocatori, ne ha lanciati altri.
Il raggiungimento dell’obiettivo europeo sarebbe un giusto premio al lavoro di miglioramento della società e della squadra che Juric ha portato avanti in queste tre stagioni.
Forse questa è l’eredità più importante da lasciare in dote al suo successore.
Ma c’è un’altra dichiarazione di Juric che mi ha fatto molto riflettere, perché assolutamente lucida e condivisibile: il confine tra un decimo e un sedicesimo-diciassettesimo posto è labile, molto di più di quanto non sia quello tra il decimo e il sesto posto.
Non si tratta solo di punti o di vittorie. Si tratta di organizzazione, programmazione, gestione.
Alla fine, il Torello di Juric sta dove deve stare e può recriminare esattamente come le altre diciannove franchigie del campionato.
Abbiamo lasciato punti per strada, è vero, ma una forbice di 6-7 punti in più (auspicabile e realistica) potrebbe essere applicata anche alle altre squadre.
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Juric ha commesso tanti errori di valutazione, a livello tattico, tecnico e umano, nella gestione dello spogliatoio, a cui va aggiunta una comunicazione deficitaria che ha creato e sta creando un acceso e vivace dibattito in tutto l’ambiente granata.
L’oramai ex allenatore del Toro, però, l’ambiente lo ha inquadrato.
Forse non lo ha compreso del tutto, ma non credo che valga la pena interrogarsi ancora sulla questione.
Diciamo però che quello che ha capito, ce lo ha restituito in maniera diretta, magari brutale, sbagliando modi, tempi, toni: credo in primis che abbia scambiato il poco amore per l'esatto opposto; che non si sia accorto che la tifoseria ha sostenuto e sostiene a oltranza la squadra e non solo da tre annetti scarsi.
Forse abbiamo patito la sua franchezza, le parole rudi, beh, preferisco così: alla fine soltanto giocando a carte scoperte sai davvero con chi hai avuto a che fare.
Può piacere o meno, ma almeno non sono rimasti nell’aria silenzi incomprensibili e parole non dette.
All’orizzonte si stagliano paure, dubbi e una serie di granitiche certezze: l’avvento di un allenatore nuovo, una rosa sostanzialmente stravolta e cessioni eccellenti.
Il nuovo tecnico dovrebbe essere Paolo Vanoli.
Il suo nome non mi convince, non certo per le capacità, ma per la scelta di un esordiente che, in serie A, alle prime difficoltà potrebbe essere fagocitato da un ambiente ma soprattutto da una società non strutturata a supportarlo nella maniera adeguata.
Allo stesso tempo, la mossa di Cairo mi stupirebbe alquanto. In passato il presidente granata ha preferito puntare sempre su tecnici navigati, e mai su un allenatore emergente.
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Ma se Europa deve essere, che Europa sia.
Costi quel che costi, con tutti i rischi del caso, con una rosa incompleta, un tecnico inesperto e il calendario pieno che non ti permette di allenarti con continuità.
Alla fine, è un gioco, e allora giochiamo, non facciamone una tragedia.
Insomma, muoia Sansone e tutti i Filistei.
Proviamo a vedere il bicchiere mezzo pieno.
L’Europa potrebbe essere un’opportunità di crescita per i nostri ragazzi più giovani (dal prossimo ciclo, mi aspetto l’inserimento in prima squadra di due-tre primavera).
La dimensione europea potrebbe essere l’unico modo per alzare l’asticella, per attrarre calciatori migliori, sponsor, aumentare gli interessi economici, per essere più appetibili.
Fosse anche in un girone con avversari improbabili e impronunciabili, il Toro ha bisogno di Europa.
Anche della terza coppa europea in ordine di importanza.
Perché se ci vanno gli altri è un traguardo e se ci andiamo noi è un ripiego, un intoppo, qualcosa di ingombrante?
Non è una coppetta e basta leggere alcuni dei nomi delle squadre già presenti a preliminari e playoff…
Non credo più, da tempo, a Cairo folgorato sulla strada di Damasco.
Se dopo vent’anni siamo questi, l’unica speranza è che i risultati sportivi diventino un volano per la crescita del club.
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Per conquistare un posto in Europa l’ultima chance passa proprio da Bergamo, ospiti della squadra che ha appena vinto una coppa europea e che da otto anni si conferma come una delle più belle e fulgide realtà del panorama italiano e internazionale.
Questo incrocio è una specie di catarsi.
Molti si interrogano sul modello, sulla necessità di replicarlo, e sarebbe certamente un punto di partenza virtuoso.
Allo stesso tempo è uno specchio che dimostra la realtà plastica che stiamo vivendo.
Vincere contro l’Atalanta significherebbe uccidere il drago, superare il livello di un videogioco, comprendere che la nostra strada, adesso, è un ramingo e impervio sentiero di montagna, mentre i bergamaschi passeggiano sui Campi Elisi sorseggiando il miglior champagne.
L’Atalanta è un modello vincente, una società strutturata, gestita con attenzione, che ha creato, anno dopo anno, le prerogative per arrivare alla serata di Dublino attraverso la sostenibilità, l’organizzazione, la qualità, la comunione d’intenti.
Sono state fatte delle scelte, nette e incontrovertibili, si è puntato su un allenatore e si è costruita una società prima di una squadra.
Un club anni luce avanti rispetto a molte realtà italiane.
Innegabile il divario con il Toro, molto più ampio di quanto non dica la classifica e di quanto non dica il 3-0 della partita di andata.
Il Toro non batte l’Atalanta nel doppio confronto tra andata e ritorno, dal campionato 2015/16: 2-1 in casa (Bruno Peres, Maxi Lopez) e 1-0 fuori (Bovo), allenatore Ventura.
Nei campionati precedenti con Juric alla guida, il Toro ha disputato alcune delle sue migliori partite: il bugiardo 1-2 della prima di campionato (2021/22), il pirotecnico 4-4 di Bergamo, sempre nella stessa stagione, il 3-0 targato Zapata nella partita di andata del dicembre 2023.
Motivazioni contro pancia piena. Voglia e necessità di centrare una vittoria, per chiudere in bellezza.
I presupposti ci sono.
Poi sarà quel che sarà.
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Chiosa.
Sabato scorso nella vittoria con il Milan, dopo quattro anni e 129 presenze, Ricardo Rodriguez ha segnato il suo primo gol in maglia granata.
Una rete bellissima, il più classico dei gol dell’ex, da capitano, davanti ai suoi tifosi nella sua ultima recita casalinga.
Rodriguez è stato un buon giocatore, un professionista serio, uno di quelli che per questa maglia ha dato tutto: classe, professionalità, tecnica.
Penso sia corretto salutarlo con gli onori che merita, anche per aver consentito a Buongiorno di leggere a Superga i nomi dei caduti.
Un gesto che, per quanto mi riguarda, vale tantissimo.
Pertanto, grazie Ricardo.
Grazie di cuore.
Ps. Solo quando non hai più giocatori di questo tipo, ci fai caso.
Giocatori a cui non sono stati riconosciuti i giusti meriti per la costanza di rendimento, per la grande esperienza, per lo spirito di abnegazione.
Se ne andrà (salvo sorprese) perché non ha raggiunto un accordo con la società sul prolungamento del contratto e la scelta può essere più o meno condivisibile.
Peccato.
In un gruppo che vuole crescere, giocatori di questo spessore, andrebbero tenuti.
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