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columnist
Finalmente siamo tornati a casa. Non importa se ci abbiamo messo vent'anni, né se la struttura non è come la ricordavamo o nemmeno come l'avremmo voluta. Esistono momenti fondamentali nella vita delle comunità: l'abbattimento del Filadelfia fu uno dei più duri colpi (bassi) che la tifoseria granata ha ricevuto in oltre un secolo. Un colpo talmente chirurgico che per due decadi ha privato questa magnifica e speciale comunità, non di un luogo fisico, perché, sebbene in condizioni pietose, continuava pur sempre ad esistere nella toponomastica cittadina un luogo chiamato “Filadelfia”, quanto di tutto ciò che questo luogo rappresentava nella storia del Torino e della sua gente. Diceva qualcuno che i luoghi sono speciali in relazione a quanto speciali sono le persone che li fanno vivere. Negli ultimi venticinque anni si è perso tutto un patrimonio di “artigianato” granata che il football scientifico moderno pretende di sostituire, ma che sul paziente Torino non può essere l'unica medicina praticabile. Il calcio è cambiato, vero, ma l'idea di cos'era il Torino e cosa si vorrebbe che fosse non lo è affatto. O almeno non nella testa di noi tifosi.
Il Filadelfia è piccolo, è incompleto, è scarno in alcune sue parti, è deturpato dalla struttura che sostiene i teloni “anti spie”, è giuridicamente un assurdo, ma ha un enorme lato positivo: è tornato ad essere un luogo di convergenza fra la squadra e la sua gente. È tornato ad essere il luogo dove la storia del Torino si può toccare e si può immaginare e dove finalmente altre pagine dì questa storia si potranno scrivere nel segno della continuità. Ne avevamo disperatamente bisogno e finalmente lo abbiamo ottenuto.
Ora la parte difficile sarà riannodare i fili col passato. Il nuovo Filadelfia è come un bambino che non sa camminare e parlare e al quale occorre insegnare tutto da zero. Ci dovrà pensare la squadra a trasformarlo nella sua tana, nel centro nevralgico della propria attività quotidiana. Dovrà viverlo non come un luogo di lavoro dove si va, si fa la prestazione e poi si torna a casa, ma più come un rifugio dove sentirsi professionalmente al sicuro, un monastero dove assorbire concentrazione e inspirazione, una piazza dove incontrare i propri amici e conoscenti con i quali fa piacere passare del tempo. Allo stesso modo i tifosi si dovranno riabituare a non fare solo i tifosi. Dovranno sostenere i giocatori, fargli percepire affetto e vicinanza (che non significa “spillare” selfie e autografi approfittando del clima familiare!), trascendere dalla dicotomia vip/fan per cercare di crearne una più intima, possibilmente sullo stesso livello: persona/persona. E nell'era dei social, della privacy e dello stalking non sarà per niente un’impresa semplice…
Insomma, il mezzo ora c'è, il tempio è stato riaperto ed una ferita e’ stata ricucita. Ora ci vuole tanta buona volontà per utilizzare il Fila al meglio. A cominciare da una cosa che non ho capito: perché la Primavera giocherà al Fila, ma non si allenerà lì? Mi pare un enorme controsenso che non fa da buon viatico ad un “ritorno alle origini”. I ragazzi della Primavera devono vivere a stretto contatto con la prima squadra altrimenti come possono sviluppare dentro di sé quel desiderio di poter fare il salto dall'altra parte? Vedere quotidianamente i “grandi” , parlargli, potersi saltuariamente allenare con loro non è forse la maniera migliore per coltivare un sano senso di emulazione e di voglia di arrivare? Uno dei tanti prodigi del Fila che fu da traslare nel Fila che sarà.
Da tempo opinionista di Toro News, do voce al tifoso della porta accanto che c’è in ognuno di noi. Laureato in Economia, scrivere è sempre stata la mia passione anche se non è mai diventato il mio lavoro. Tifoso del Toro fino al midollo, ottimista ad oltranza, nella vita meglio un tackle di un colpo di tacco. Motto: non è finita finchè non è finita.
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