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CUIABA, BRAZIL - JUNE 21: Head coach Safet Susic of Bosnia and Herzegovina looks on during the 2014 FIFA World Cup Group F match between Nigeria and Bosnia-Herzegovina at Arena Pantanal on June 21, 2014 in Cuiaba, Brazil. (Photo by Matthew Lewis/Getty Images)
Il campionato è appena finito, si tirano le somme, si stilano bilanci. Tempo d’estate, i bagni al mare, gli acquazzoni che si alternano ai giorni torridi, le zanzare, i tormentoni musicali: una volta era il tempo dei Righeira o di qualche hit che arrivava dalla Spagna, adesso è il turno di Annalisa ed Elodie (e lasciatemi dire, che intravedo un discreto miglioramento). Il calcio va in vacanza e nonostante i tempi cambino, una cosa, per gli appassionati del pallone, non cambia mai: il calciomercato! Trasmissioni, esperti, soffiate, tweet, inviati che piantonano hotel, ristoranti, ritiri delle società: tv, giornali, fantacalcio, siti web, podcast, si direbbe che l’Italia, oltre al paese del sole e del mare sia quello del calciomercato. Per iperbole, il calcio giocato è una pausa nelle finestre di calciomercato.
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I tifosi sognano il colpo a sorpresa, attendono l’ufficialità delle trattative, alcuni, gli esperti di football manager, novelli talent scout, sperano di vedere i loro pupilli nella squadra del cuore. In questa rubrichetta da passatempo estivo andremo a ripercorrere alcune delle storiche operazioni di mercato (mancate o portate a termine) del Toro. A ritroso negli anni, ricorderemo personaggi, calciatori, trattative e retroscena oramai dimenticati negli anni. Oggi partiamo da una delle operazioni di mercato più emblematiche della nostra storia. Il più classico degli sliding doors che alimenta tuttora la voce rimpianti e cancellò, all’epoca, le speranze di un’intera tifoseria: il caso Susic.
Pape Safet, Pape Susic, Pape aleppe!
Cosa voleva dire l’Alighieri con quel verso (Pape Satàn, pape Satàn aleppe) all'inizio del Canto VII dell'Inferno? Un’imprecazione a Satana? Un’espressione inventata? Una preghiera? Qualcosa di maligno o di indecifrabile? Ebbene, parafrasando il Sommo Poeta e parlando del nostro protagonista, Safet Susic era davvero qualcosa di indecifrabile per i suoi avversari, per i suoi compagni e forse anche per sé stesso. Una specie di genio in calzoncini, con i calzettoni abbassati, l’eleganza di un ballerino classico, un dribbling magnifico e una grandissima visione di gioco. Un centrocampista offensivo, un trequartista, capace di illuminare con il suo talento una nazionale che del talento ha sempre fatto il suo tratto distintivo, la Jugoslavia.
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Susic è stato un grande interprete del ruolo, una sorta di Zidane ante litteram, abile nel galleggiare, fluttuando, leggiadramente tra centrocampo e attacco. Allo stesso tempo riusciva ad essere l’one man band capace di azioni solitarie e dribbling che facevano ammattire i difensori avversari o il giocatore a cui i compagni affidavano palloni da gestire e smistare. Un organizzatore, un maestro d’orchestra, un armonizzatore. Susic aveva intelligenza calcistica superiore e una tecnica di base sopraffina. Nato a Zavidovići, nell’attuale Bosnia, Susic ha cominciato la sua carriera nel Krivaja, squadra locale del suo luogo natio. Gli osservatori delle grandi squadre jugoslave se lo contendono e il ragazzo sceglie l’FK Sarajevo, in cui giocherà oltre 600 partite, realizzando 400 gol.
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Il 1979 fu il suo anno di grazia e si aggiudicò i titoli di “Miglior giocatore della Jugoslavia” e “Miglior sportivo della Bosnia ed Erzegovina”. Mercoledì 13 giugno 1979, a Zagabria, allo stadio Maksimir, quello in cui scoppiò di fatto il conflitto jugoslavo del 1991, va in scena una amichevole tra Jugoslavia e Italia. I brasiliani d’Europa ci travolgono per 4-1 e Susic delizia la platea con una tripletta siglata nel giro di mezzora. Sembra un marziano. Danza tra i nostri difensori e li demolisce con finte, contro finte, tocchi deliziosi. Alla fine del campionato jugoslavo 1979/80 si laurea capocannoniere con 21 reti ed è un giocatore in rampa di lancio. Susic è conosciuto anche per la sua finta, la celebre kičma, con cui spiazza e semina gli avversari, lasciandoli immobili sul posto. Mercoledì 28 aprile 1982. Mancano due giorni alla chiusura della finestra di mercato. La Serie A riapre le frontiere e il calciomercato è in fermento. La nuova dirigenza del Toro ha già fatto le prime mosse: ci sarà un taglio col passato e il primo a pagare le conseguenze di questo new deal, sarà niente meno che Paolino Pulici, idolo incontrastato di tutti i tifosi granata di ogni età, ceto sociale, razza e perfino religione.
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In attacco arriveranno Borghi e Selvaggi dal Catanzaro e dal Cagliari e dall’estero si attende un nome di prima grandezza. È sera. Mio padre torna a casa dopo una lunga giornata di lavoro. L’autoradio restituisce la notizia tra agghiaccianti retaggi musicali degli anni Ottanta (in testa alle classifiche in quel periodo, in Italia c’è Il Ballo del qua qua): “Il Toro ha acquistato il fuoriclasse jugoslavo Safet Susic.” Luciano Moggi, allora direttore sportivo del Torino, lo aveva annunciato nel pomeriggio. A quel tempo le fonti di informazione erano poche e dopo una certa ora le notizie erano riciclate sino all’ultimo telegiornale notturno.
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I quotidiani della sera si riferivano a notizie di ore addietro e la radio era ancora uno dei porti sicuri dove trovare conforto. Ma quando a tavola, a confermare il tutto, fu il telegiornale delle venti, quello del due, ecco risuonare una delle frasi tipiche della mia infanzia: “L’ha detto la televisione.” Era quella, una sorta di certificazione, una bolla papale, una legge vidimata da un ente supremo. L’immagine di quel momento è ancora vivida. Mi alzai velocemente da tavola, infilai il corridoio, andai in camera a prendere un Guerin Sportivo con la foto di quel giocatore che avevo visto in televisione, proprio nell’amichevole contro gli Azzurri. Già, gli Azzurri.
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Eravamo ad aprile, il Mundial spagnolo era alle porte e tante squadre si stavano muovendo per acquistare il “secondo straniero”. La Juve aveva preso Platini, la Fiorentina Passarella, altri top player (ma anche bidoni di una certa caratura) arriveranno dopo la rassegna iridata. Andai a dormire con la notizia che Safet Susic sarebbe stato il futuro numero dieci del Toro. Il nome era affascinante, il calciatore tutto genio e sregolatezza, il fuoriclasse in grado di accendere gli entusiasmi e i sogni di ogni tifoso, regalava sogni in grande stile. Ma al mattino seguente, ecco la doccia fredda.
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La Gazzetta titolò: “Inter-Torino: rissa per Susic”. Già, perché Safet Susic, detto Pape, aveva firmato due contratti. Forse perché era talmente tanto entusiasta di trasferirsi in Italia che non gli bastò una squadra sola e dopo aver firmato per l’Inter di Fraizzoli, firmò anche per il Toro. O viceversa, le cronache dell’epoca non seppero ricostruire la faccenda in modo chiaro. Il caso si tinse di giallo. E ovviamente, dove ci sono intrighi, situazioni limite, dietro-front dell’ultimo minuto, lì c’è qualcosa di granata. A questo punto le due società si cautelarono e entrambe fecero un passo indietro: troppa la paura di essere sanzionati, di rischiare inibizioni e/o squalifiche.
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Nel frattempo, Susic venne tesserato dagli spagnoli dello Sporting Gijon che in attesa dello svolgimento del Mundial, attesero che la federazione jugoslava completasse le ultime formalità per il trasferimento del giocatore all’estero. Alla fine di questo balletto beffardo, Susic confermando la sua imprevedibilità, finirà per accettare la corte del PSG dove raggiungerà la consacrazione, diventando un top player di livello europeo. In Francia vincerà titoli a ripetizione diventando una vera e propria icona del club parigino. Disputerà il mondiale del 1982, l’europeo del 1984 e il mondiale del 1990.
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E il mercato del Toro di quell’estate? Insieme ai già citati Borghi e Selvaggi, da Ascoli, per completare il reparto offensivo arrivò Fortunato Torrisi (che scrisse una delle pagine più belle e iconiche della storia del Toro), in difesa Galbiati e il giovane di belle speranze Giancarlo Corradini. L’acquisto esotico arrivò da una terra di grandi ballerini, di tangueros, e fu spacciato ovviamente come un grande affare: direttamente dall’Estudiantes, ecco arrivare Patricio Hernandez, detto Pato. Moggi seppe vendere bene il poco arrosto che portò alla nostra tavola e Hernandez venne fatto passare per fuoriclasse, ma fuoriclasse non era: “Il Toro ha comprato il vice di Maradona.” Peccato che ogni volta che la Nazionale argentina doveva sostituire Maradona, in campo ci andavano Barbas, Valencia, o Calderón. L’operazione al Torino costò cinque miliardi di lire. Pato era un onesto calciatore dotato di buon tiro, secco e potente, che ballò un’annata sola (la prima) in cui segnò undici gol, avendo un discreto impatto sul calcio italiano. Poi troppe pause nella seconda stagione granata e il successivo trasferimento ad Ascoli. Se Susic fu un rimpianto, uno dei tanti della storia dei mercati del Toro, Hernandez fu il più classico dei vorrei ma non posso. Un incompiuto, un ballerino di seconda fila, non l’etoile che illumina i palcoscenici.
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Susic lo sarebbe stato? Difficile dirlo. Il nostro campionato è sempre stato molto complesso per gli stranieri e forse il talentuoso jugoslavo si sarebbe scontrato con marcature più rudi, tatticismi esasperati, ritmi più elevati, maggiore pressione. Che fosse un fuoriclasse si sapeva, che si sarebbe confermato, beh, quello è un altro paio di maniche. Ed è anche questa la bellezza del calciomercato. Non ci sono certezze e capita che i sogni più nitidi (e non solo quelli del calciomercato) svaniscano all’alba. Il grande colpo sarà tale soltanto dopo che il campo avrà dato il suo verdetto. Le prime pagine e i titoli di giornale servono ad alimentare il fascino di questo periodo lunghissimo e a dir poco estenuante. Fascino o fastidio, decidete voi.
Ha senso una finestra mercantile di tre mesi quando in fondo basterebbe concentrare il tutto in due settimane? C’è la sensazione che questo carrozzone serva ad alimentare un calciomercato sempre più fragile e sempre più che mai, legato ai soldi e non alle idee. Le sessioni di mercato del Toro, storicamente, sono una via di mezzo tra Aspettando Godot e il teatro dell’Assurdo di Ionesco: aspettavamo Susic e all’appuntamento si presentò Hernandez. I due in comune, avevano poco e niente, forse solo il modo irriverente di indossare i calzettoni, bassi, sulle caviglie. I concetti di ironia e saper ridere di sé stessi, spiegati bene.
Ad un anno campione d’Italia, cresciuto a pane e racconti di Invincibili e Tremendisti. Laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Ho vissuto Bilbao e Licata e così, su due piedi, rivivrei volentieri solo la prima. Se rinascessi vorrei la voleé di McEnroe, il cappotto di Bogart e la fantasia di Ljajic. Ché non si sa mai.
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