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Chega de Saudade

Un nuovo appuntamento con "Gran Torino", la rubrica a cura di Danilo Baccarani

Intervistato a fine partita, Dino Viola, presidente romanista, disse: “È molto bravo, molto bravo. Stavamo per prendere lui e poi…abbiamo preso Renato.” A questo punto, Viola abbassò lo sguardo, fece una pausa, abbozzò un mezzo sorriso, amaro e, da consumato attore, fece intendere che la Roma aveva commesso un errore. Poi aggiunse: “C’è chi indovina e chi sbaglia, no?” Di quel “lui”, anelato da Dino Viola, parleremo più avanti. A margine di questa storia, uno straordinario tocco di ironia lo regalarono i tifosi romanisti con lo striscione "A Cochi ripijate Renato”. Ma questa è un’altra storia.

Il sottofondo musicale di questa storia avrebbe dovuto essere un samba allegro, vivace, trascinante, seducente, vitale, ritmato, quasi erotico.

Ma quella stagione del Toro, di vitale, ritmato ed erotico, non ebbe davvero nulla. Anzi, fu un vero e proprio dramma sportivo. Di quel samba promesso, rimase una bossa nova lenta, triste, soffusa, senza enfasi. Una musica diversa, dolorosa, imprevedibile, sconosciuta, che ti macera e ti uccide da dentro. Di quella delusione dei miei quattordici anni, ricordo quella squadra disgraziata, gli alti e bassi in un susseguirsi di emozioni incalzanti mescolate a fragorose delusioni. Anche se state fischiettando, leggendo distrattamente, facendo finta di niente, sappiamo benissimo di quale stagione stiamo parlando. Ci siamo capiti.

Torino-Roma del 9 aprile 1989 fu uno dei pochi momenti esaltanti di quella annata e i giallorossi furono una delle due squadre che battemmo sia in casa che in trasferta, l’altra fu il Como, retrocesso da ultimo della classe. Una stagione nata sotto uno stellone sbagliato, con le cessioni di Corradini, Bergreen, Gritti e Polster, ma soprattutto di Massimo Crippa enfant prodige pescato dal Pavia, e venduto dopo un solo anno, dall’allora Amministratore delegato De Finis. La cessione, in extremis, del mediano nativo di Seregno, avvenne dopo che De Finis pronunciò, davanti a diversi tifosi, la frase: “Autorizzo i tifosi a sputarmi in faccia se vendiamo Crippa o Cravero.” La dirigenza, con in testa il presidente Gerbi, il “buono”, l’AD, De Finis, “il cattivo”, e Luciano Moggi, “il brutto”, continuò nel lavoro già iniziato l’anno prima con le cessioni di Junior, Dossena, e Francini, altra pietra preziosa, venduta per fare cassa. Era finita l’era Rossi e stavamo per entrare in una valle di lacrime.

Ci eravamo indeboliti e scegliemmo di farlo nell’anno in cui la serie A passava da 16 a 18 squadre e le retrocessioni crescevano da due a quattro. I tre stranieri, altra novità di stagione, furono croce e delizia. Il bosniaco Haris Skoro e i due brasiliani, Edu Marangon e Luis Antonio da Costa, detto Müller, non fecero la differenza. Edu aveva il fisico di un giocatore di bocce, magro ed emaciato, e ancor peggio, per dirla alla Troisi, aveva la faccia della tragedia. Lo sguardo triste e spaesato, la lentezza bradipesca, la carenza di ritmo, che per un brasiliano è una bestemmia, e la scarsa capacità di calarsi in una realtà nuova, lo fanno ricordare come uno dei migliori fenomeni parastatali di gialappiana memoria. Se Edu era lo Ying, la faccia triste del Brasile, Müller era lo Yang, Toda joya toda beleza. E la bellezza se l’era portata dietro dal Brasile, grazie all’avvenenza di Jussara, la sua bellissima e prorompente moglie, una chacrete, velina di uno degli show televisivi più in voga, apparsa, all’epoca su qualche rivista un po’ osé.

Le cose per il Toro, e per Müller non andarono bene sin da subito e il rapporto tra Mister Radice e il brasiliano non fu dei migliori. Müller viveva di notte, diviso tra locali notturni, discoteche, auto veloci e le mattane di Jussara. Ventidue anni, un carattere bizzoso e un modo tutto brasiliano di interpretare il calcio: aveva numeri da fenomeno (e lo era), il gusto della giocata e parecchi personalismi che cozzavano con il gioco collettivo. Giocava da ala destra, faticando a comprendere i tatticismi esasperati del calcio italiano, e nonostante la collocazione in campo, il ragazzo riusciva anche a segnare qualche gol. Il Toro arrancava sulle sue personalissime montagne russe. Il brasiliano e sua moglie continuavano a frequentare feste e discoteche, attraversando la Torino notturna a bordo della loro Ferrari. Nonostante una dolce vita in salsa torinese, Jussara si sentiva come imprigionata in un ambiente nuovo e distante dalle abitudini brasiliane.

Dopo le serate brave, il ragazzo arrivava al Filadelfia, svogliato, spesso in ritardo e praticamente privo di energie e per questi motivi, scivolò in panchina fino all’esonero del tecnico. Con l’addio di Radice, Müller ritrovava fiducia, campo, e una nuova posizione (più vicina alla porta), grazie all’intuizione di Claudio Sala, nuovo allenatore in pectore. Alla prima apparizione, segnava una doppietta da urlo al Milan di Sacchi ma la samba si trasformò di nuovo in bossa nova. Il brasiliano partì per le vacanze di Natale e non fece ritorno a Torino alla ripresa delle attività, saltando anche il derby di San Silvestro, perso per 1-0. La società lo perdonò, anche perché nonostante la sua incostanza, al giocatore erano legate le poche speranze di una salvezza diventata sempre più difficile.

Dopo le reti al Como, alla Lazio e al Cesena ecco il giorno di gloria. 9 aprile 1989. Il brasiliano quel pomeriggio si scatenò, imprendibile, danzava sul pallone a ritmo di samba, saltando gli avversari come birilli. Policano, terzino romanista, perse palla ai danni di Skoro che servì Müller. Il numero nove granata si liberò di Collovati con una magia di tacco, venne affrontato da Di Mauro e Oddi e li superò con un saltello impercettibile. Anche la palla lo assecondò, compiendo un leggero rimbalzo sul manto erboso, che permise al brasiliano di calciare in maniera secca, quasi di controbalzo, recapitando la sfera nell’angolo lontano dove Peruzzi proprio non poté arrivare, Toro 1, Roma 0. Nel secondo tempo giallorossi attaccarono con convinzione. Prima con Voeller che metteva i brividi a Marchegiani concludendo sull'esterno della rete. Poi il tedesco migliorava la mira e con una rasoiata, pareggiava i conti, dopo aver saltato in dribbling Rossi e Comi. Il Toro vedeva il baratro ma Fuser con un secco destro al volo dalle soglie dell'area, riportava i granata in vantaggio.

A sette minuti dalla fine, il capolavoro di Müller. Comi saltava Policano in palleggio e lanciava lungo per il brasiliano il quale scattava oltre la linea di difesa, sul filo del fuorigioco. A questo punto, nell’uno contro uno con l’estremo romanista, a Müller sarebbe bastato un dribbling, uno spunto rapido, per anticipare Peruzzi in uscita. Ma il brasiliano era artista vero, e chiudeva i conti con un capolavoro di tecnica e di fantasia. La sua era una rete da cineteca. Un gol, un tocco inventato dal nulla, con la palla che toccava terra e Müller con l'esterno del piede destro la accarezzava aggirando il portiere, anticipandolo sul tempo. Una specie di pallonetto incrociato controtempo, controbalzo. Proprio sotto la Maratona.

Un mese dopo, mentre la società veniva rilevata da Gian Mauro Borsano, Claudio Sala lasciava il posto a Vatta, per un finale già ampiamente noto. Müller segnò ancora gol pesanti, a Como e in casa con l’Inter ma le sue 11 marcature non bastarono a salvare il Toro. Müller resterà in granata altri due anni. Tra colpi di testa, bravate, vita notturna esagerata e incomprensioni con sua moglie (da cui divorzierà in seguito) e con i suoi allenatori. Lo volevano la Juve, il Napoli, la Fiorentina, la Roma ma lui voleva soltanto tornare a casa, a San Paolo. Col Toro 26 reti in 74 presenze, sullo sfondo la saudade e un carattere inquieto e bizzoso. Quel gol di esterno ad anticipare Peruzzi in uscita fu il suo manifesto di genio e sregolatezza. Un samba senza lieto fine. Per lui e per noi. Un samba trasformatosi troppo presto in una bossa nova.

Chega de Saudade è il primo samba diventato bossanova. Il titolo letteralmente significa, Basta nostalgia.

Ad un anno campione d’Italia, cresciuto a pane e racconti di Invincibili e Tremendisti. Laureato in storia del Cinema, innamorato di Caterina e Francesco, sposato con il Toro. Ho vissuto Bilbao e Licata e così, su due piedi, rivivrei volentieri solo la prima. Se rinascessi vorrei la voleé di McEnroe, il cappotto di Bogart e la fantasia di Ljajic. Ché non si sa mai.

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